L'Editoriale
Mercoledì 08 Gennaio 2025
La giusta ossessione per il debito pubblico
ITALIA. Di bilanci per il 2024 o di previsioni per il 2025 ne abbiamo letti ormai in abbondanza e di ogni genere. Ma la scelta di Giancarlo Giorgetti come «Ministro dell’Economia dell’anno», da parte della rivista anglosassone «The Banker», merita un supplemento di riflessione perché riguarda un aspetto decisivo della politica economica del nostro Paese.
La motivazione del riconoscimento, che arriva da un mensile dello stesso gruppo editoriale del Financial Times, è la seguente: «Giorgetti si è guadagnato rispetto per i suoi tentativi di ridurre il crescente deficit dell’Italia e di sostenere gli investimenti pubblici, con un piano di lungo termine per ridurre l’elevato rapporto debito/Pil del Paese».
Una crescita vertiginosa
Le cifre sono da capogiro, come i quasi 3mila miliardi di euro di indebitamento raggiunti dal nostro Paese, circa 50mila euro per ciascun cittadino, molto più della ricchezza che produciamo ogni anno
Alle prese con problemi quotidiani di ogni sorta, dalle bollette che in alcuni casi riprendono a salire alle liste d’attesa nella sanità pubblica che non si accorciano, è legittimo chiedersi: davvero la questione del debito pubblico italiano è così importante da meritare tanta attenzione dal ministro dell’Economia? La risposta non può che essere un deciso «sì». Non c’è benaltrismo che tenga, i numeri innanzitutto sono lì a testimoniarlo. Le cifre sono da capogiro, come i quasi 3mila miliardi di euro di indebitamento raggiunti dal nostro Paese, circa 50mila euro per ciascun cittadino, molto più della ricchezza che produciamo ogni anno. Non si tratta di una questione meramente contabile. Il debito pubblico è cresciuto rapidamente negli anni 70 e 80 dello scorso secolo, di pari passo con la supponenza di una classe dirigente-politica che riteneva di poter soddisfare a suon di spesa pubblica ogni singola e minuta richiesta che arrivasse dalla società. Dagli anni ’90 in poi, invece, lo stesso debito è cresciuto soprattutto per il cosiddetto effetto «palla di neve»: più che un ritmo di spesa fuori scala, ha pesato da una parte la scarsa risolutezza ad abbattere il debito quando possibile, dall’altra il costo crescente degli interessi su quanto accumulato. Come questi numeri record incidano sulla vita quotidiana è presto detto. Nell’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle, lo Stato italiano ha speso circa 80 miliardi di euro per pagare gli interessi ai detentori di titoli del debito nazionale. Una cifra ragguardevole, specie se rapportata per esempio alla legge di bilancio appena approvata che vale circa 30 miliardi di euro, quindi meno della metà del servizio sul debito. Una simile proporzione dà l’idea del livello di irrigidimento a cui è arrivata la nostra politica fiscale.
Nell’anno che ci siamo da poco lasciati alle spalle, lo Stato italiano ha speso circa 80 miliardi di euro per pagare gli interessi ai detentori di titoli del debito nazionale. Una cifra ragguardevole, specie se rapportata per esempio alla legge di bilancio appena approvata che vale circa 30 miliardi di euro, quindi meno della metà del servizio sul debito
Il debito pubblico da strumento di «controllo» della politica sulla società è diventato - trent’anni dopo - un vincolo così pressante che a tratti rende impossibile controllare scelte perfino piuttosto semplici di politica economica. Alla luce di un tale meccanismo, che senza esagerazioni può essere definito «infernale» per una società come la nostra, si comprenderà allora l’enfasi che da mesi il ministro dell’Economia Giorgetti ha posto sulla riduzione del costo dello stesso debito e sull’assottigliamento dello spread tra i rendimenti dei titoli tedeschi (considerati uno standard di affidabilità) e i nostri.
I valori
Un anno fa lo spread si aggirava attorno a quota 170, oggi è sceso a 110 punti. Scommessa vinta per il ministro («avevo puntato su 110, l’unico 110 che mi piace», ha scherzato), ma soprattutto per noi contribuenti. L’Ufficio parlamentare di bilancio, che è un’autorità terza e indipendente, ha stimato infatti che grazie alla recente discesa dello spread avremo una minor spesa per interessi di 17,3 miliardi di euro nel periodo 2025-2029. E allora lo spread certo non sarà tutto, come pure ha detto Giorgetti nei mesi scorsi, ma puntare a ridurlo - anche sfruttando la stabilità dell’attuale esecutivo - ha un impatto molto concreto. Dover pagare meno interessi sul debito nel breve-medio periodo, e poi doversi sobbarcare meno debito nel medio-lungo periodo, consente alla politica di riconquistare spazio di manovra per le scelte che si riterranno più opportune, libera risorse oggi «impegnate» in modo obbligato per destinarle al taglio delle tasse o rafforzamento della sanità, tanto per fare due esempi. Ecco perché la prudenza sui conti pubblici rivendicata dal ministro Giorgetti con la recente legge di bilancio, per altri aspetti legittimamente criticabile, non può essere affatto confusa con un atteggiamento rinunciatario. È praticamente l’opposto. È una assunzione di responsabilità di fronte ai contribuenti, ai giovani e alle future generazioni in particolare, è la precondizione per poter tornare un domani a dividersi sulle priorità da «finanziare», abbandonando un’epoca fatta di alta spesa pubblica stabilita col pilota automatico. C’è da augurarsi che nel 2025 questa ossessione per il debito non svanisca e si traduca in altre scelte conseguenti.
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