La giungla dei bonus, i controlli necessari

ITALIA. Le chiamano «tax expenditures», e suona bene.

«Bonus» - sarà per via del latino - va ancora meglio. Ma se dicessimo che questo buonismo costa 128,6 miliardi (2022, dati Mef), di cui 82 erariali, cosa ne penserebbe la generalità dei contribuenti, cioè i contribuenti normali? Se andiamo nel dettaglio, si fa un’ulteriore scoperta e cioè che il numero di queste agevolazioni è arrivato a 740, 626 delle quali erariali, ben 144 con effetti che il Ministero definisce prospetticamente imprevedibili. Alcune addirittura sconosciute ai più, ben note solo agli interessati. Stiamo parlando di variazioni al ribasso rispetto al dovuto fiscale, sotto forme varie: differimenti, esenzioni, crediti di imposta, alterazioni degli imponibili, imposizioni sostitutive e così via. Insomma, diciamola chiara: se Mario Rossi scoprisse di non essere oggetto di queste affettuose attenzioni che riguardano invece tanti Mario Bianchi ben protetti, un po’ magari si arrabbierebbe. La madre di tutto questo bendidio è naturalmente il superbonus, con effetti ancora non ben calcolati, ma che aumenteranno l’importo complessivo di cui sopra.

I miliardi - tutti scritti nei documenti governativi - e in crescita del 46% dal 2016, quando si è cominciato a quantificare il fenomeno, corrispondono a sette volte più della manovra 2023, su cui pur si accapigliano partiti, sindacati e imprese. Possibile che non si possa trovare lì dentro qualcosa di più per la sanità o altre partite in sofferenza? Il ricorso a questa lotteria delle agevolazioni è cominciato nel 2007 con 150 euro per aiutare gli incapienti a conseguire i livelli necessari ad usufruire delle deduzioni. Ma poi il vizietto è diventato una valanga. La Commissione istituita presso il Mes dal 2017 ha calcolato qualcosa come 750 miliardi sottratti al gettito! Naturalmente non dobbiamo generalizzare e vi sono certamente molte tra queste deduzioni che hanno una ragione politica condivisibile. Basti ricordare il caso del cuneo fiscale, avviato nel 2017 dal famoso bonus Renzi e ancora utilizzato dal governo Meloni quest’anno, su cui c’è ampia condivisione. E infatti, l’utilizzo delle «expenditures» è diffuso in altri Paesi Ocse. Solo che la quantità di questi interventi vale in Francia l’1,5% del Pil, mentre da noi è del 6,2%, tutto compreso.

Ci sarebbe insomma spazio per disboscare la giungla, lasciando sopravvivere le agevolazioni che hanno un senso e andando a rivedere alcune di quelle che davvero meriterebbero una censura. Vedi monopattini, biciclette, ma anche mobili, giardini, tende e quant’altro. Con l’aggravante dei «click days» per ottenere per sola capacità informatica l’agognato vantaggio, negato a chi non è altrettanto veloce. Ma quando hai dato, cancellare diventa difficile, perché c’è sempre una coincidenza plausibile di interessi individuali e collettivi. Argomenti come il risparmio energetico, la questione ambientale, la questione demografica, la prevenzione antisismica giustificano interventi e attenzioni, anche se ciascuna di queste problematiche meriterebbe in realtà qualcosa di più complesso e ampio di una agevolazione fiscale, che non basta battezzare «green» per essere certi che sia virtuosa.

Il Comitato scientifico del Centro Einaudi di Torino sta elaborando in questi giorni una riflessione di carattere più generale che riguarda la natura stessa di una fiscalità contraddetta dalle eccezioni, in nome di concetti come redistribuzione dei redditi e valore moltiplicativo delle agevolazioni, da tenere sotto rigoroso controllo critico. Nel documento introduttivo, l’economista del Centro, Giuseppe Russo, ha fatto notare che «l’apertura di centinaia di nuovi rivoli redistributivi pone un problema di capacità di controllo non solo delle spese fiscali, ma di capacità di valutazione quantitativa e qualitativa degli effetti di redistribuzione».

Con il fisco, insomma, non si può scherzare, soprattutto se a forza di eccezioni si finisce per toccare il sacrosanto principio costituzionale della progressività. Sarebbe d’accordo anche il benemerito John M. Keynes, di solito involontario alibi delle forzature di un’economia liberale.

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