L'Editoriale / Pianura
Domenica 02 Febbraio 2025
La giornata per la vita, io sono nato a sette anni
IL RACCONTO. Nella Giornata per la Vita, una storia che incoraggia all’adozione.
Non sempre le carte d’identità o i codici fiscali dicono il vero. La verità è che io ho 63 anni ma sono nato soltanto nel 1969. E ricordo benissimo il giorno della mia nascita: era fine estate, era Sant’Alessandro e i giochi in fiera, lo zucchero filato e il pon pon, era la Fiat 125 (conoscevo solo il trattore di mio zio, un gigante dalle orecchie a sventola: le mie le ho ereditate da lui). E c’era tanto sole. Ho avuto questo incredibile dono: vedermi nascere. Sono nato a sette anni e sono un figlio adottivo. I miei genitori naturali lasciarono i tre figli (Anna, Caterina e io) nell’arco di quindici giorni: ricordo perfettamente di avere salutato papà Paolo e mamma Giuseppina il giorno prima della loro morte, entrambi in ospedale. Mia madre riuscì ad accarezzarmi il volto e a sussurrare il mio nome: la sua voce è ancora impressa nella carne della memoria. E non se ne va più via. I nuovi genitori adottivi, Giulio e Anna, con i miei nuovi fratelli (Elena, Giorgio e Sandra) vennero a Treviglio a prendermi per invitarmi a stare da loro qualche tempo, così tanto per provare. Non sono più andato via.
A quel tempo ero «parcheggiato» in un tristissimo collegio affacciato sul ring trevigliese (oggi trasformato in altro). Potrei scriverci un libro di memorie, raccontando con una certa precisione e dovizia di particolari vitto e alloggio, i mandarini di Santa Lucia, il grande catino per il bagno quindicinale, il cortiletto, il banco con il calamaio, la colonia estiva di Oltre Colle, sul sentiero per l’Alben (conobbi lassù la nuova famiglia e mia sorella maggiore che indossava un completo giallo a pois), l’allunaggio dell’Apollo 11. E, soprattutto, le suore.
Noi eravamo gli «orfanelli» e avevamo il privilegio di entrare gratis al cinema dei salesiani (dopo la benedizione eucaristica). È lì che Ben-Hur mi catturò, per dire.
Ero finalmente «io»
Se mi permetto di raccontare questa storia non è certo per esibizione ma per incoraggiare la scelta dell’adozione. Sono consapevole dell’iter faticosissimo, quasi impossibile, per molte giovani famiglie che sentono il sincero desiderio e la vocazione a nuove forme di generazione. L’adozione è stata la mia vita. E la mia salvezza. Ancora oggi mi chiedo: che ne sarebbe stato di me? Figlio della campagna contadina, nato in un grande cascinale (stesso mood da Albero degli zoccoli), con il grugnito del maiale sgozzato e lo starnazzare delle galline nei timpani, ebbi l’incredibile ventura di approdare in una bella casa alle pendici della Maresana. Salendo le scale in legno, in quella mattinata agostana, mi sentivo in paradiso. Sono stato rimesso al mondo, rieducato a tutto: alla pulizia personale, alla relazione parentale, agli affetti e agli abbracci, ai baci che respingevo sistematicamente; alla scrittura (in italiano ero un disastro) e alla lettura (odiavo leggere); alla disciplina del pensiero, a stare a tavola, a mangiare tutto o quasi (il mio stomaco respinge a tutt’oggi i formaggini), a non dire le bugie. Ho lasciato che mia madre si prendesse cura di me, mi guardasse: per molto tempo non sono riuscito a sostenere lo sguardo, tenevo la testa bassa, avevo vergogna. Ho gioito di un padre che faceva due tiri al pallone con me e mio fratello e ci iniziasse alla folle guida in picchiata del carrettino con i cuscinetti a sfera. L’adozione è stata la grande scuola del legame: la sensazione piacevole di essere di qualcuno, di appartenere a, essere di: in una parola essere amato. Non che i miei genitori biologici non mi avessero amato. Semplicemente, non hanno potuto accudirmi. Strappato dall’anonimato generico, diventai qualcuno quando smisi di essere uno tra i tanti. Ero finalmente «io». Feci l’esperienza impagabile di essere voluto, scelto. Adottato appunto. Oggi capisco ancora di più la finezza linguistica dell’espressione «ti voglio bene»: il figlio c’è solo quando è voluto, scelto. Orfano, dal latino orphanus e orbus, significa «privo», «perduto»: questo fa l’adozione, trasforma il perduto in un ritrovato. Gli offre solidità esistenziale per fronteggiare il mondo.
Compresi di essere figlio
Che bello scoprire di essere «unico» (non il solo) agli occhi dei miei e non qualcuno tra i tanti come in collegio. Gioivo quando mia madre adottiva, a domanda precisa, rispondeva di aver avuto quattro gravidanze, e la quarta era la mia. È lì che compresi di essere figlio. Prima non lo sapevo. Ho anche imparato a chiamare i miei con il nome di mamma e papà, perché Anna e Giulio non sono nomi per me, ma per loro e gli amici. Mamma e papà erano, sono, il loro nome, perché sono il legame che genera, l’autorevolezza che autorizza a diventare attore protagonista della propria singolarissima storia. Ho appreso presto che per mettere al mondo un figlio non basta metterlo al mondo, che generare è un «mestiere» di tutti i giorni, che si è sempre genitori di figli che non si partoriscono e che il legame di sangue non è tutto, anzi. Ho imparato molto dai miei e sorrido ancora quando mia madre dall’alto dei suoi ormai 89 anni mi rimprovera, non lasciandomi mancare le sue osservazioni puntuali e mettendo in riga il figlio che ha impensierito i suoi giorni e le ha richiesto un surplus di passione e amore. I figli adottivi senza chiederlo è questo che chiedono: sentendo il deficit non smetterebbero mai di volerlo, l’amore.
Sarò sempre grato a mio padre e mia madre. Senza di loro non sarei nemmeno diventato prete. Se ho intuito qualcosa di ciò che i cristiani chiamano «grazia» credo proprio di averlo appreso da loro. Sono riconoscente a tante persone, sia della famiglia naturale sia di quella adottiva: l’adozione è un atto corale. Da grande ho pensato fosse giunto anche il momento della restituzione (che non è do ut des né risarcimento). Ed è così che anch’io – non per pareggiare conti che non si pareggiano mai ma per «legge» di gratuità – mi sono preso cura di uno di quei tanti figli in cerca di futuro da noi. A mio modo ho «adottato» (scelto) facendo mio l’appello o il compito del generare. L’unico forse a tenere in vita la vita. E a tenerci in vita.
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