La frenata Volkswagen, una sveglia per tutti

MONDO. Non che mancassero i segnali di allarme per l’industria manifatturiera e quella dell’auto in particolare, in Italia come in altri Paesi europei, tuttavia le notizie in arrivo dalla Germania rappresentano uno spartiacque.

L’azienda tedesca Volkswagen, seconda produttrice di auto del pianeta dietro la giapponese Toyota e prima Casa del nostro continente, sta valutando la possibilità di chiudere uno o più impianti in Germania nell’ambito di una ristrutturazione che punta a ridurre i costi di 10 miliardi di euro da qui al 2026. Una mossa senza precedenti negli 87 anni di storia del gruppo, un colosso con 680mila dipendenti nel mondo dei quali 300mila nel Paese d’origine, che potrebbe mettere in discussione il patto di salvaguardia dei posti di lavoro fino al 2029 siglato con i sindacati.

L’annuncio è stato avvertito come uno shock dalla società tedesca. Tuttavia non va sottovalutata la portata sistemica di questo scricchiolio per il resto degli europei. Innanzitutto se ne può dedurre che il rallentamento dell’economia tedesca è conclamato, e dopo l’arretramento dello 0,3% del Pil registrato nel 2023 rimane da capire se la (ex) locomotiva d’Europa riuscirà a raggiungere lo stentato più 0,1% previsto dalla Commissione Ue per la fine di quest’anno. Inoltre fanno riflettere le parole del Ceo di Volkswagen, Oliver Blume, sui motivi dell’annuncio: «L’industria europea dell’auto è in una situazione molto dura e seria - ha detto -. Il contesto economico è diventato ancora più difficile e nuovi concorrenti stanno entrando nel mercato europeo».

Cosa sta succedendo, dunque, a questo pilastro della nostra manifattura? Alcuni osservatori puntano l’indice sui problemi dell’«offerta»: se un tale peso massimo dell’industria deve chiudere le fabbriche - ha affermato un analista di Ing Research - allora le misure di politica economica tedesca vanno notevolmente potenziate; mentre i sindacati locali accusano i manager di Volkswagen di non aver investito nell’ibrido o nell’auto elettrica a prezzi accessibili. Riflessione, quest’ultima, che introduce un problema di ordine diverso, sul lato - direbbero gli economisti - della «domanda»: per altri analisti, infatti, l’andamento stagnante delle vendite di auto in Europa è ricollegabile ai trend di crescita del Pil modesta e ai tassi d’interesse ancora elevati nel continente, dunque alla scarsa propensione all’acquisto da parte dei consumatori in questa fase.

Senza necessariamente escludere queste due concause, le parole dell’a.d. di Volkswagen alludono a una terza fonte di instabilità per il settore: la perdita di competitività rispetto alla concorrenza asiatica. Volkswagen, come altri grandi gruppi tedeschi, aveva ritenuto finora di essere immune dalla sfida cinese, anche grazie alla propria presenza in forze nel mercato di Pechino. Fino al 2022, Vw era addirittura il primo produttore di auto nel Paese asiatico, attraverso le sue anticipatrici joint-venture con i marchi locali. Le grandi aziende di Berlino avevano creato una sorta di «economia parallela», con un accesso privilegiato a un mercato enorme e in crescita, e per di più senza gli eccessi dirigistici che hanno caratterizzato la transizione ecologica in Europa. I produttori nativi però non sono rimasti inerti e, sostenuti dai lauti finanziamenti statali, hanno prima conquistato la nicchia della mobilità elettrica, per poi rosicchiare rapidamente quote del mercato complessivo, tanto che nel 2023 la cinese Byd ha superato Volkswagen per vendite nell’ex Impero celeste.

L’Italia non è al riparo da dinamiche simili. Sul lato dell’offerta, siamo lontani dai 4,5 milioni di veicoli prodotti in Germania, come anche dall’obiettivo di tornare a produrre almeno un milione di auto nel nostro Paese. Nelle scorse settimane, la Fim-Cisl ha osservato che se la situazione non cambierà, considerato che gli ammortizzatori sociali non durano in eterno, sono possibili circa 25mila licenziamenti entro la fine del prossimo anno, equamente divisi tra Stellantis (ex Fiat) e il suo indotto. Allo stesso tempo la domanda da parte dei consumatori rimane debole. Ad agosto sembra già essersi esaurita la spinta degli eco-incentivi statali: le immatricolazioni sono state inferiori del 13,4% rispetto allo stesso mese del 2023, mentre complessivamente da inizio anno l’incremento si ferma al 3,8%. Mentre procede la penetrazione di marchi cinesi, con una quota di mercato ormai del 3,4% (dati AlixPartners), triplicata dal 2019 a oggi. Il nostro stretto legame con l’industria dell’auto tedesca può realisticamente accelerare questa dinamica negativa. La Germania è infatti di gran lunga il Paese da cui importiamo e verso cui esportiamo la quantità maggiore di componenti per auto. Parliamo di 2.167 imprese italiane (dati Anfia), fortemente internazionalizzate, con 55,9 miliardi di euro di fatturato e quasi 170mila addetti. La provincia di Bergamo, peraltro, per il numero di queste aziende è la quarta più importante del Paese dietro Torino, Milano e Brescia. Se Berlino piange, insomma, Roma e Bruxelles non ridono.

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