La doppia dispersione, nodo irrisolto della scuola

La dispersione scolastica esplicita (quella dei giovani fino a 24 anni che hanno abbandonato gli studi dopo la terza media), è, in Lombardia, quasi al 12%. Non ci si può consolare perché nel 2004 era al 22,4%. L’Europa aveva infatti chiesto ai Paesi membri di abbassarla entro il 2020 al 10%. Su 27 Paesi dell’Unione solo 17 hanno raggiunto l’obiettivo.

Noi siamo al quart’ultimo posto tra i «disobbedienti». Il fatto più preoccupante, però, è un altro. Da noi i Neet (acronimo di Not in Education, Employment or Training, cioè i giovani tra i 18 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e nemmeno lo cercano) è a livello nazionale del 23,3%. Nella Bergamasca è del 18,3% (contro una media regionale del 17,4%). Certo non siamo al 38,6% della Sicilia, al 36,2% della Calabria o al 35,9% della Campania. Ma non è una consolazione per un territorio che vanta una laboriosità di lungo periodo storico e che ha la fortuna di un tessuto imprenditoriale ancora tra i più avanzati d’Italia. Secondo l’Istat (dati 2021) gli analfabeti puri, quelli che non sanno leggere e scrivere, in Italia sono lo 0,61% dei residenti con più di 9 anni di età. Nella Bergamasca sono lo 0,35%. Nel 1951 erano pari al 2,10% ma della popolazione al di sopra dei 6 anni, non dei nove come ora. I bergamaschi con la terza media sono il 54,51% della popolazione. Quelli diplomati sono il 34,01%. I laureati (compresi i dottori di ricerca) sono l’11,48% (nel 1951 erano circa il 4%).

Perché il nostro Paese non riesce a risolvere questa doppia forma di dispersione? L’Invalsi ha scritto che «il raggiungimento del diploma, da solo, non necessariamente certifica che il rischio di fallimento formativo sia stato davvero evitato». Anche perché, «a parità di titolo conseguito, si registrano livelli di competenza molto diversi tra gli studenti» e in troppe zone del Paese le «promozioni» sono facili

Tutto questo per quanto riguarda la dispersione esplicita. Ben più insidiosa, tuttavia, è quella implicita, nascosta, di cui spesso sul piano formale non esiste nemmeno traccia. Infatti, al di là dei titoli di studio, tutte le ricerche disponibili documentano che i quindicenni italiani sono, in media, meno competenti in lingua, matematica e scienze dei coetanei europei. Stessa tendenza, purtroppo, per i 19enni. Lombardia e Bergamo stanno in verità un po’ meglio. Ma non svettano. Non parliamo poi a confronto dei coetanei di Paesi come Finlandia, Corea o Singapore. L’Accademia dei Lincei ha lamentato che oltre il 50% di chi sostiene l’esame di Stato non si potrebbe definire sufficiente nell’uso della lingua.

Perché il nostro Paese non riesce a risolvere questa doppia forma di dispersione? L’Invalsi ha scritto che «il raggiungimento del diploma, da solo, non necessariamente certifica che il rischio di fallimento formativo sia stato davvero evitato». Anche perché, «a parità di titolo conseguito, si registrano livelli di competenza molto diversi tra gli studenti» e in troppe zone del Paese le «promozioni» sono facili, quasi automatiche e all’esame di Stato si è generosi di 100 centesimi e lode. Questi rilievi, tuttavia, amplificano la gravità della malattia.

Dice pur qualcosa, allora, se, a 100 anni dalla riforma Gentile, i docenti non abbiano ancora una vera carriera che premi i migliori, non esista un accompagnamento personalizzato nei percorsi formativi degli studenti e, allo stesso tempo, gli ordinamenti abbiano subito soltanto modifiche cosmetiche e non strutturali.

Dice pur qualcosa, allora, se, a 100 anni dalla riforma Gentile, i docenti non abbiano ancora una vera carriera che premi i migliori, non esista un accompagnamento personalizzato nei percorsi formativi degli studenti e, allo stesso tempo, gli ordinamenti abbiano subito soltanto modifiche cosmetiche e non strutturali. Al punto che non c’è imbarazzo sociale e culturale a «consigliare» tuttora agli studenti ritenuti «bravi» nella scuola media la frequenza di un liceo e poi dell’università, ai «quasi bravi» gli istituti tecnici, ai «sufficienti» gli istituti professionali e ai ragazzi demotivati allo studio, magari ripetenti, i corsi di istruzione e formazione professionale delle Regioni. Infine, ai ragazzi ritenuti scolasticamente perduti per capacità, età, comportamento, è «consigliato» soltanto di inserirsi «nel mondo del lavoro». Come se il lavoro, a ben 100 anni da quella riforma, dovesse ancora essere il destino dei falliti scolastici e un luogo dove non esiste più l’opportunità di crescere sul piano non solo professionale, ma soprattutto educativo, culturale e della responsabilità personale e sociale. Col risultato che, se anche i soldi a debito del Pnrr verranno spesi restando sempre prigionieri di queste mentalità, si finirà per aumentare la dispersione implicita e diminuire la qualità del lavoro. Non il massimo per un paese che era la IV potenza industriale del mondo alla metà degli anni Ottanta e che oggi è scivolato all’XI posto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA