La dignità di Biden, la rincorsa di Harris

MONDO. Non è stato un grande discorso, quello con cui Joseph Robinette Biden detto Joe, 81 anni, ha illustrato agli americani la decisione di ritirarsi dalla corsa per la presidenza, pur essendo convinto che «la mia storia come presidente, la mia leadership nel mondo, la mia visione per il futuro dell’America avrebbero meritato che facessi un secondo mandato».

Biden non ha davvero spiegato le ragioni della rinuncia, né come sia arrivato alla decisione fatale. Il suo, però, è stato un discorso dignitoso, dopo un inizio di campagna elettorale segnato soprattutto da argomentazioni di bassa lega e insulti. Dignità è la parola chiave dell’ultima vicenda di Biden. Un po’ tutti ci siamo scordati che non solo di politica si trattava. Che in ballo c’era anche la vita di un uomo che alla politica ha dato tutto (nel 1972, quando entrava per la prima volta in Senato, la sua attuale vice Kamala Harris aveva 8 anni) e dalla politica ha avuto tutto, fino alla Casa Bianca, al ruolo di leader della più grande potenza mondiale.

Quando Biden si è raccontato come un figlio del sogno americano, come «il ragazzino balbuziente di Scranton» che è riuscito a diventare presidente, voleva certo solleticare la fiducia degli americani nella natura eccezionale del loro Paese, ma forse aveva davanti agli occhi anche il film di una vita, la sua, che eccezionale lo è stata di certo. Non solo per la precocità e la longevità della sua carriera, ma anche perché pochi uomini hanno passato così tanto tempo alla Casa Bianca: 8 anni da vice di Barack Obama più altri 4 da presidente. E l’intenzione più volte dichiarata di portare a termine il mandato, per «porre fine alla guerra a Gaza, riportare a casa tutti gli ostaggi, portare pace e sicurezza in Medio Oriente» e rispondere alle sfide della politica interna, prime fra tutte l’economia e l’immigrazione, non può che fargli onore.

I repubblicani, come si nota dalle dichiarazioni che rilasciano, hanno già archiviato Biden. L’infelice esito del dibattito del 27 giugno aveva innescato, in campo democratico, le discussioni sulla necessità di mandare avanti un altro candidato, e la campagna di Trump aveva lasciato che fossero gli stessi avversari a far crescere la sensazione di un Biden invecchiato e inadeguato alla sfida. Ora, però, potrebbero aver commesso un errore. Biden, da qui al voto di novembre, può ancora essere un fattore. Dipenderà dalle sue condizioni fisiche, ovviamente, e dal modo in cui riuscirà a metabolizzare questo addio così indigesto. È chiaro, infatti, che i notabili del Partito democratico, da Obama ai Clinton a Nancy Pelosi, hanno sottovalutato il problema per poi risolverlo in fretta e furia, e in modo per Biden inaspettato e brutale.

Ma un Biden generoso con il partito, attivo e voglioso di spendersi dalla cattedra della Casa Bianca in favore di Kamala Harris, cioè ancora portatore di quella dignità personale e pubblica di cui dicevamo prima, potrebbe ancora spostare molti voti. Non va peraltro sottovalutata la carica di novità della candidatura della Harris: per la prima volta una donna, che è anche una persona di colore, ha una vera possibilità di arrivare alla Casa Bianca. Le tocca un compito gravoso, deve fare in poco tempo un lavoro enorme (quattro dei cinque swing States, gli Stati in bilico e decisivi, la vedono ancora in svantaggio), ma non parte affatto spacciata.

Certo, il Partito democratico dovrà fare qualcosa più di quanto fatto finora. Descrivere Trump come una minaccia per la democrazia, a prescindere da quanto sia vero, ha funzionato quattro anni fa ma non è detto che funzioni ancora. E per convincere i giovani e gli incerti ad andare a votare ci vorrà qualcosa di meno retorico e più concreto, più legato ai bisogni quotidiani della gente.

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