L'Editoriale
Domenica 21 Novembre 2021
La debolezza dei partiti nel voto per il Quirinale, una politica che langue
La salita al Colle è sempre stata un percorso impervio, pieno di ostacoli e spesso anche di sorprese. Mai, però, si è presentata come un groviglio inestricabile come al presente. Mai si è configurata come una partita tanto cruciale per il futuro equilibrio politico e forse anche per il prossimo assetto istituzionale della nostra Repubblica. Groviglio inestricabile. Da qualunque parte si affronti, la partita del Quirinale pare finire in un cul de sac o, peggio, in un disastro politico. I partiti sono divisi, anche al loro interno, e perciò impossibilitati a esprimere una strategia unitaria e coerente. C’è una mancanza di orizzonte politico, condiviso da un largo fronte di forze. Anzi, diverse sono le mire dei vari comprimari.
La Meloni è favorevole a traslocare Mario Draghi al Quirinale per aprire una crisi di governo che sfoci nello scioglimento delle Camere. Confida, infatti, di uscire dalle urne con l’investitura popolare di premier del centrodestra. Non proprio quello cui mirano i suoi partners, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, tanto meno i suoi avversari, Cinque Stelle e Pd. Letta intende scongiurare in ogni modo la caduta del governo. Con un M5S allo sbando, non ha alternative a una maggioranza di larghe intese. Al contempo non può permettersi di subire lo scacco di un presidente della Repubblica scelto dal centrodestra. Sarebbe la prima volta. Da parte sua, Matteo Renzi con il 2% di cui è accreditato dai sondaggi, deve evitare ad ogni costo il bagno di sangue di un voto anticipato. Per questo è pronto a tutto pur di risultare decisivo nella scelta del Capo dello Stato. Ne va del suo futuro. S’è guadagnato la fama di «king maker» e tale vuole restare, magari per disegnare un nuovo ordine politico, di cui egli detenga la golden share. Diversamente Italia Viva è destinata a scomparire.
Quale potrebbe essere il futuro assetto istituzionale della nostra Repubblica? Che sia all’orizzonte un neo-presidenzialismo, anche se solo di fatto, non è del tutto da escludere. A ben guardare ogni presidente della Repubblica ha inaugurato in passato una nuova stagione politica.
Mai come negli ultimi tempi. Il vuoto lasciato in modo così evidente da una politica che langue, è stato riempito (non poteva essere altrimenti) dalla massima carica dello Stato. Scelta del leader incaricato di formare un nuovo governo, nomina dei ministri, scioglimento delle Camere sono rimasti poteri non pienamente assunti in proprio dal presidente della Repubblica fino a quando i partiti sono stati capaci di formulare proposte stringenti. Non così dal 2013, da quando cioè con l’entrata in scena del M5S il Parlamento non è più riuscito a dar vita a maggioranze coerenti e organiche.
Al di là degli orientamenti in tema di poteri attribuiti al presidente della Repubblica, gli inquilini del Quirinale succedutisi da allora, non a caso hanno assolto a un ruolo decisivo nella formazione delle maggioranze e nella stessa scelta del futuro premier.
Stante la debolezza dei partiti, è difficile che il prossimo Capo dello Stato non assuma una tale caratura politica. Del resto non sono gli stessi partiti che vogliono Draghi sul Colle, augurandosi che in tal modo sia assicurata, oltre la fine della legislatura, una guida autorevole al governo, a conferire una piega semi-presidenzialista alla nostra Repubblica parlamentare?
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