La Croce Rossa
e l’odio dei social

Il filmato dura un minuto. Si vede un giovane africano senza più forze, fatica a camminare ed è sorretto da una volontaria. Viene fatto sedere su una roccia in riva al mare, ha la pelle ricoperta di sale, reduce da una nuotata. La soccorritrice gli porge una bottiglietta d’acqua e lui la scola in pochi secondi perché disidratato. Poi compie un gesto umanissimo: appoggia la testa sulla spalla dell’accompagna-trice e inizia a piangere. Lei lo consola a gesti, gli accarezza la nuca e la schiena, poi si abbracciano. Una scena che dura un attimo ma sembra non finire mai, fino a quando l’immigrato viene steso a terra, preso da conati di vomito.

È accaduto martedì scorso, quando il Marocco, come ritorsione verso la Spagna per aver ospitato per cure mediche in un ospedale vicino a Saragozza Brahim Ghali, leader del Fronte Polisario per la liberazione del Sahara occidentale, nemico di Rabat, ha aperto le porte a 8 mila migranti diretti a Ceuta, enclave spagnola in territorio marocchino. La scena dell’abbraccio è avvenuta proprio a Ceuta. La volontaria è Luna Reyes, 20 anni, di Madrid, stagista della Croce Rossa iberica. Alla tv pubblica del suo Paese ha raccontato: «Parlava in francese, contava con le dita, io non capivo nulla, ma sono convinta che mi stesse dicendo il numero dei suoi compagni morti in questo viaggio. Non riesco a non pensare al suo sguardo perso. Credo si volesse uccidere. Meritava quell’abbraccio».

Ma non c’è solo un video di quel ritratto d’umanità, anche fotografie che finiscono sui social e vengono subito travolte da una mare di odio spaventoso, da lasciare attoniti: commenti razzisti, xenofobi e sessisti, il più lieve ma becero dei quali dice «basta buonismo: l’immigrato voleva toccarle il seno», opera di un’opinionista tv con simpatie per l’estrema destra. «Non sparate sulla Croce Rossa», si diceva un tempo. Ma non è più così. Accade anche in Italia e non solo. Secondo i dati dell’Osservatorio istituito nel dicembre 2018 per censire i rischi legati al volontariato durante le attività, nei primi sei mesi del 2019 le aggressioni sono aumentate e nel 2018 le denunce sono state quasi 10 al giorno. «Si tratta - spiega una nota della Croce Rossa italiana - di aggressioni a medici e infermieri in ospedale, nei Pronto soccorso e nei presidi medici assistenziali sparsi per il nostro Paese. Un’urgenza che si sta trasformando in emergenza nazionale. Da Nord a Sud. Altro drammatico aspetto è quello delle aggressioni agli operatori delle ambulanze e dei danneggiamenti ai mezzi stessi».

Ma torniamo al caso spagnolo. Luna Reyes ha agito da soccorritrice ma soprattutto da persona umana, di fronte a un giovane (si è scoperto poi essere senegalese) disperato e spento, che ha cercato un abbraccio rigenerante e consolatorio. Di fatti sui social si è formato anche un gruppo a sostegno della tirocinante della Croce Rossa. Ed è arrivata la difesa della madre: «Mia figlia è spaventata e indignata - ha raccontato Luis Reyes - e tutto è nato quando la sindaca della nostra città ha fatto un post dichiarando il suo orgoglio verso il gesto di Luna». Più defilato il padre, il signor Luis, per il quale gli odiatori sono «persone in cerca di visibilità, nemmeno le loro madri sono interessate alle assurdità che scrivono». Intanto la figlia ha preferito cancellare la sua presenza dai social. I giudizi dei genitori rappresentano bene le due posizioni di un dibattito aperto: da una parte chi ritiene che bisogna denunciare e replicare all’odio, soprattutto quando raggiunge dimensioni impressionanti. Dall’altra chi è per non dare visibilità a questa deriva, lasciarla scorrere. Ma i gestori dei social non intervengono se non su segnalazione e con algoritmi che cancellano in automatico ad esempio foto di bambini malnutriti «perché ledono la sensibilità del pubblico», non però parole razziste o immagini insultanti. L’altro giorno ad esempio un utente di Facebook ha pubblicato la famosa e tragica foto dei camion con le bare di bergamaschi morti di Covid, elaborandola in maniera disgustosa: dai camion sventolavano bandiere nerazzurre, con il titolo «I tifosi dell’Atalanta si recano al Mapei Stadium» per la finale di Coppa Italia. È tutto tollerabile, anche irridere il dolore dei parenti delle vittime del virus?

Un bel saggio di Filippo Domaneschi, docente all’Università di Genova, intitolato «Insultare gli altri», spiega come «studiare come e perché insultiamo può aiutarci a capire qualcosa di più del modo in cui concepiamo il mondo e le persone che ci circondano». L’individualismo esasperato ha privatizzato il senso di umanità, riservato quando va bene a parenti e amici. Il prossimo al di fuori dei legami di sangue ed affettivi è degno solo di sospetto, se poi migrante nemmeno di un abbraccio. Quando accade, ci deve essere un secondo fine. Che brutto modo di vivere.

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