La crisi può aspettare ma i conti per chi urla non sono ancora chiusi

Tra qualche preoccupazione e molto scetticismo, si aspetta il voto di oggi alla Camera sul contenuto del decreto «Aiuti» – su cui Montecitorio ha già votato la fiducia – e quello di giovedì-venerdì sullo stesso argomento, ma con la differenza che a palazzo Madama il regolamento prevede che ci sia una sola votazione quando il governo pone la questione di fiducia su un certo provvedimento. Oggi i grillini di fede contiana usciranno dall’aula per evitare di astenersi su un provvedimento tanto importante e per il quale hanno già votato la fiducia.

Giovedì al Senato faranno la stessa cosa. Questo ci dice che la crisi di governo non è in agenda nonostante i toni accesi, i penultimatum di Conte e l’agitazione di quei grillini che premono per poter uscire dal governo nella speranza di recuperare un po’ di voti. Ma non hanno tutti i torti coloro i quali escludono che ci possa essere una crisi per almeno due buone ragioni. La prima è che Draghi una maggioranza ce l’ha anche senza il M5S da quando Lugi Di Maio si è portato via una sessantina di parlamentari assolutamente convinti di dover sostenere, insieme al ministro degli Esteri, anche il presidente del Consiglio (o viceversa, fate voi).

Tra l’altro gira voce che se Conte dovesse insistere con la minaccia di rompere con palazzo Chigi, un’altra quindicina tra deputati e senatori farebbero le valigie e lascerebbero il movimento. Inoltre ormai non è più escluso che, nella peggiore delle ipotesi, si possa andare verso un «Draghi-bis» con la sola sostituzione dei ministri fedeli a Conte. Quest’ultima soluzione, tuttavia, salvando il governo segnerebbe però contemporaneamente la fine dell’alleanza tra il Pd e il M5S e dunque assegnerebbe già da adesso al centrodestra la vittoria alle prossime elezioni politiche. È per questo che, da Letta a Franceschini a tanti altri esponenti piddini, si sta lavorando per sanare la frattura convincendo Draghi a dare qualche soddisfazione al M5S tanto inquieto: per esempio sul Superbonus, sul salario minimo, sul cuneo fiscale. Insomma, palazzo Chigi potrebbe consegnare ai pentastellati una qualche bandiera da sventolare in segno di vittoria.

Unica condizione: Draghi rifiuta un altro scostamento di bilancio perché sa bene che a Bruxelles è tornato in forze il «partito dell’austerità» che preme per tornare alla gabbia del patto di Stabilità. Conte invece chiede una pioggia di miliardi sulle famiglie e sulle imprese pur sapendo che non ci sono le condizioni per aumentare deficit e debito.

Insomma, la partita è molto delicata e riguarda sia la sorte del governo in un momento burrascoso della politica internazionale e dell’economia, sia la prospettiva delle prossime elezioni. C’è da aggiungere che se Draghi dovesse accondiscendere un po’ troppo alle condizioni di Conte per rifare la pace nella maggioranza, anche il centrodestra di governo, soprattutto la Lega, riprenderebbe ad alzare la voce avanzando le proprie richieste sia di programma che parlamentari (fermare lo ius scholae innanzitutto).

Molto dipende dall’azione diplomatica dei cosiddetti pontieri che stanno lavorando in tutte le direzioni. Ma altrettanto importante è l’istinto di conservazione che fatalmente ha ogni forza politica al potere: oggi uscire dal governo, per tanti esponenti del M5S significherebbe privarsi di visibilità e di leve di comando, e dunque la quasi automatica sparizione dalla scena e la non rielezione alle elezioni del ’23. Bisogna infatti sempre distinguere se chi urla più forte degli altri, in politica, lo fa per minacciare o per incassare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA