L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 04 Novembre 2018
La crescita è un miraggio
Recessione a un passo
Se la Spagna cresce nell’ultimo trimestre dello 0,6, e l’Italia è a zero, piatta, anzi flat, come direbbe Salvini, ultima in tutta Europa, ci sarà pure qualche motivo di preoccupazione, o almeno di riflessione? Non è ancora recessione, ma poco ci manca, tanto più che altri indicatori danno la stessa sentenza, ultimo il minimo segnato dalla manifattura della piccola impresa, subito dopo gli inquietanti stop di settori grandi, come l’automobile. E la disoccupazione torna a doppia cifra, con decrementi dei contratti stabili che sembrano l’avveramento della profezia sugli effetti del decreto Dignità. Per completare il quadro, rallenta anche la spinta dell’export, che è quello che ci ha tenuto a galla e poi rilanciato verso l’uscita del lungo tunnel. Solo le odiate banche passano il test, un beffardo contrappasso...
Anche l’ultimo trimestre vacilla ed è difficile che l’anno si chiuda sopra l’1% prima dato per sicuro, ed è assurdo che si possa parlare di un 2019 a +1,5%, architrave di una manovra messa nero su bianco all’ultimo giorno utile, con continue esclusioni e inclusioni dei provvedimenti bandiera, tipo pensioni d’oro (invidia sociale per uno zero virgola) o reddito di cittadinanza, peraltro ancora mistero da chiarire, sia nei costi (7 o 50 miliardi?) sia soprattutto nelle procedure anti-divano. Con la Lega di Giorgetti ventriloquo di un Nord che mormora. Il fatto è che se saltano due numeri decisivi - l’1,5% di crescita e il 2,4% di deficit - tutto cadrà, e avremo assistito a scontri muscolari dentro e fuori Italia solo dannosi, visto che secondo il Governatore Visco il gran parlare a sproposito di questi mesi ci costa già 5 miliardi.
La sfida all’Europa è riuscita a rianimare una stanca Commissione in scadenza, e a rimandare i problemi irrisolti come garanzie europee sui depositi, unione bancaria, strumenti di protezione comuni. Abbiamo più bisogno di Europa come soggetto forte di politica estera e ci perdiamo in polemiche addirittura personali, con rotture verbali che ci faranno pagare caro, per avviare improbabili alleanze alternative tra sovranisti (per definizione l’un contro l’altro armati, specie in materia di migrazione) o ammiccamenti a nuovi equilibri geopolitici con Putin o Trump, del tutto incongrui. Sta di fatto che se il +1,5% lo vediamo solo con la lente della propaganda, salta inesorabilmente anche l’altro caposaldo, e cioè la decisione di fare nuovi debiti restando sotto l’azzardo 2,4%.
Se guardiamo alle ultime sette leggi di bilancio, la media dello sforo, dal 2011, è 0,86%, e Conte dovrebbe far miracoli per non superare il 3%, premessa di dure sanzioni, come richiesto da tutti i sovranisti d’Europa che contro l’Italia prenderanno voti alzando la voce a casa loro. Con l’aggravante che quel deficit aggiuntivo è a debito e va in spesa corrente. Ci facciamo prestare soldi a costi crescenti non per investire e creare lavoro, ma solo per sussidi e fumo negli occhi dei votanti delle prossime elezioni. Nel 2013 lo fece Renzi con gli 80 euro, ma almeno sono rimasti nel tempo, mentre qui si sventolano 780 euro per il 2019, si promettono terreni agricoli, si incentivano prepensionamenti, si introducono condoni, umoristicamente definiti redistributivi. Investire su opere pubbliche e su incentivi alla produttività sarebbe utile anche a debito, ma se trafori, gasdotti e autostrade sono viste solo come mangiatoie, peggio di un’Olimpiade, e se il più innovativo progetto di incentivazione, industria 4.0, viene rosicchiato per far tornare i conti, la corsa si ferma, resta flat. Speriamo di sbagliarci, ma allo stato, questa è la previsione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA