L'Editoriale
Domenica 14 Luglio 2024
La crescita del tennis e la lezione per il calcio
ITALIA. C’è chi parlerà di sconfitta, e magari anche di doppia sconfitta, pensando a Jasmine Paolini che non ha messo in bacheca il trofeo di Wimbledon e a Lorenzo Musetti che non è riuscito ad anticipare l’ora del tramonto di Novak Djokovic, dando l’addio alla finale del maschile che si giocherà oggi.
Chi parla di sconfitta per questi due tennisti italiani guarda allo sport con la prospettiva della punta del proprio naso. La verità è che solo una manciata di anni fa, o forse poco più, il tennis italiano nei tornei dello Slam aveva sempre lo stesso titolo: «Italiani tutti fuori al primo turno». Con qualche eccezione, ecco. Ma erano eccezioni che confermavano la regola: messi in archivio i meravigliosi anni di Panatta e compagnia, il tennis italiano era entrato in un buco nero di manager che più che al campo guardavano al proprio orto, a strutture nei territori che non c’erano, o che quando c’erano erano fatiscenti. E quando le strutture buone sono poche, giocare diventa costoso, dunque per pochi. La conseguenza è inevitabile: se pochi giocano, pochissime saranno le possibilità di scovare un talento e coltivarlo. Ed era così che gli appassionati di tennis dovevano rimanere incollati alla tv sperando in una volée di Diego Nargiso, in un diritto di Omar Camporese, in una giornata di luna buona di Stefano Pescosolido. Che messi tutti insieme, con Panatta o Cané in panchina, regalavano qualche pomeriggio di gloria in Coppa Davis. Qualche. Ma questo era il nostro tennis: un movimento modesto, che non vinceva sostanzialmente mai.
Oggi l’Italia è invece un Paese al vertice del tennis. Non solo per Sinner, che lo è anche dal punto di vista delle classifiche. Ma perché oggi l’Italia ha 6 giocatori nei primi 52 della classifica maschile, e 9 nei primi 100. E ha 5 donne nelle prime 100, con Jasmine che nella prossima classifica WTA salirà al n. 5. Nessuna nazione può vantare una tale presenza nelle prime 5 posizioni. Ecco perché quelle di Paolini e Musetti - e in fondo anche quella di Sinner - non sono sconfitte, ma vittorie. Perché è una vittoria, per il tennis italiano, essere lì, da protagonista assoluto, sul centrale di Wimbledon. Ha detto parole sacrosante Adriano Panatta, in queste ore: «Esiste anche il diritto alla sconfitta, esiste una normalità della sconfitta che andrebbe maggiormente rispettata. L’imbattibilità non esiste, ed è un bene perché rende lo sport umano». Una lezione.
C’è poco da girarci attorno. Siamo reduci da un Europeo di calcio che definire imbarazzante è ancora generoso. Ma non perché l’allenatore abbia lasciato a casa chissà quali fuoriclasse e sia andato in Germania con le seconde scelte: semplicemente perché questo è quel che il calcio italiano può offrire. Eppure da più parti si davano per certi sfracelli, e dopo l’eliminazione con la Svizzera sono partiti i processi. Il processo vero non andrebbe fatto a Spalletti, ma a quei dirigenti che, di nuovo, più che al campo pensano al loro orto. A quei dirigenti che fanno troppo poco per tutelare le società che davvero investono sui vivai per crescere giocatori italiani anziché puntare alle coppe e agli scudetti anche a livello giovanile. Perché si parla sempre del problema dell’eccesso di stranieri in Serie A. Che può anche essere vero. Ma il problema nasce ancora più a monte, quando anche nei vivai si deve vincere a tutti i costi «qualcosa», scordandosi che la vera vittoria, per un vivaio, è la crescita, la «produzione» di giocatori capaci poi di popolare le squadre - com’era una volta per l’Atalanta - o di finanziarne il futuro, com’è oggi per l’Atalanta.
Se poi nelle città i campi da calcio sono sempre più rari, e quei rari non pubblici, e nei cortili il pallone è sempre vietato perché disturba, allora ecco che il calcio di oggi è come il tennis di trent’anni fa: un movimento modesto, che raccoglie magre figure. A novembre si voterà per il futuro della Figc. Magari dall’orto si tornerà a pensare al campo. Ma il dubbio, dati i nomi che girano, resta lecito.
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