L'Editoriale / Bergamo Città
Giovedì 27 Agosto 2020
La compassione
Modo di sentire
Pubblichiamo l’omelia che il vescovo Francesco Beschi ha tenuto mercoledì 26 agosto al Pontificale per la festa di Sant’Alessandro. «Questo è il mio comandamen-to: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Il comandamento dell’amore fraterno, che abbiamo sentito risuonare nel Vangelo, è connotato da due caratteristiche: l’esemplarità dell’amore di Gesù e il dono della propria vita. È a queste caratteristiche che vogliamo ispirarci nella festa del nostro Patrono, S. Alessandro. Gesù offre ai suoi discepoli l’esempio del suo amore nell’infinita gamma delle sue espressioni: tra queste riconosciamo la compassione, virtù indicata quest’anno all’intera nostra comunità, come chiave di lettura e come scelta morale a partire dall’indimenticabile esperienza della violenza della pandemia e del dolore che ha provocato nella nostra terra.
«La pandemia ha messo in risalto quanto siamo tutti vulnerabili e interconnessi. Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro, a partire dagli ultimi, da coloro che sono maggiormente colpiti, incluso il creato, non possiamo guarire il mondo» (Papa Francesco). La compassione appartiene al mondo delle emozioni: è qualcosa che si prova, che ci afferra. Gesù prova compassione per la debolezza, lo smarrimento e la sofferenza del prossimo: si lascia afferrare dalla compassione. Non solo: nella parabola del buon samaritano indica la compassione come elemento discriminante tra le scelte del sacerdote e del levita e quelle del samaritano che soccorre il ferito. Tutti vedono l’uomo assalito dai briganti, ma solo quest’ultimo ne «ebbe compassione». In questo racconto di Gesù e nella compassione che Egli stesso manifesta nei confronti dell’umana fragilità e sofferenza, si rivela la viscerale compassione di Dio per il suo popolo e per l’intera umanità. Ed è proprio nel racconto di Gesù e nel suo agire, che possiamo ravvisare il passaggio dall’emozione alla decisione. Si tratta dei concreti gesti con cui il samaritano si prende cura dello sconosciuto ferito, fino al momento in cui, non potendo più provvedere personalmente, organizza l’aiuto da offrirgli. Sono i gesti che Gesù compie nei confronti della gente e di coloro che incontra nella loro pena.
Come ogni emozione, anche la compassione è destinata a esaurirsi. Allo stesso modo, anche il bisogno di aiuto si esaurisce, nel momento in cui trova risposta o quando drammaticamente non ne trova alcuna.
La compassione è passione: amare e insieme soffrire. Perché la compassione diventi virtù, dunque scelta morale e stile di vita, è necessario che si alimenti a qualcosa di più profondo dell’emozione e del bisogno: deve trasformarsi in un sentimento. «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù», dice l’apostolo. Non si tratta solo di valori e principi che determinano le nostre scelte e i nostri comportamenti, ma di qualcosa di più pervasivo, che caratterizza il nostro modo di fare, di pensare, di vedere e di giudicare: di sentire, appunto. L’emozione evapora, il sentimento perdura e alimenta la virtù.
L’esemplarità dell’amore di Cristo svela anche le incomprensioni, le deformazioni e le resistenze a cui è sottoposto il sentimento della compassione. Emblematiche a questo proposito sono le parole del Nibbio, il fedele servitore dell’Innominato, che, dopo aver compiuto il rapimento di Lucia, così si rivolge al suo padrone, nella famosa pagina dei Promessi Sposi: «Dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso. – Cosa? cosa? che vuoi tu dire? disse l’Innominato. – Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa compassione. – (Ancora l’Innominato) Compassione! Che sai tu di compassione? Cos’è la compassione? – (E il Nibbio) Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo». Il sentimento della compassione non sarebbe degno dell’uomo forte, dell’uomo vincente, dell’uomo che vuole perseguire i suoi obiettivi.
Vi è poi l’indifferenza o durezza di cuore. Enzo Biagi, recentemente commemorato, parlava dell’indifferenza, definendola paradossalmente e provocatoriamente come legittima difesa di fronte ai mali e al dolore del mondo che, attraverso i media, ci investe ogni giorno. Il paradosso stava e sta nel fatto che un cuore indurito non reagisce alla sofferenza di chi è lontano e neppure di chi è vicino. La durezza di cuore è un male antico a cui non infrequentemente sono esposti proprio gli uomini di religione, come denunciava Gesù stesso.
Infine vi è lo sfruttamento della compassione. Se è vero che la comunicazione e i suoi mezzi sono una ricchezza del nostro tempo, è altrettanto vero che spesso sono utilizzati per la loro capacità di suscitare emozioni forti, compresa la compassione, e di fomentarle per interessi economici, di controllo e di potere. Emblematica è la denuncia che Erri De Luca faceva in un suo breve elzeviro intitolato «Prossimo». «Mi capita regolarmente d’essere spietato, tutte le volte che vengo esortato da un imbonitore di pietà. Il bambino malato, servito caldo di dolore nell’ora di massimo ascolto e la voce sobria ma accorata che guarnisce l’immagine, non riescono a nascondere il compiaciuto cuoco del programma che fa della pietà una pietanza».
La compassione non può essere compatimento: la degnazione di chi dall’alto compatisce lo sfortunato, il fallito o l’incapace. Non può essere nemmeno la giustificazione di comportamenti che invece di rappresentare la solidarietà nei confronti di chi soffre, alimenta confusione ed indifferenza etica e morale.
Il sentimento della compassione si illumina attraverso occhi che vedono il bisogno e la sofferenza del prossimo, si rafforza attraverso mani che compiono i gesti della prossimità, della cura e del soccorso, si radica in un cuore che riconosce la propria vulnerabilità e comprende la vulnerabilità del prossimo, si trasforma in virtù civica e civile nel momento in cui diventa connotato di una giustizia sociale attenta al più debole. La compassione non edifica la città, ma la trasforma in una comunità fraterna.
Se assecondiamo la volubilità delle emozioni, ciò che abbiamo provato nei giorni della pandemia è destinato a svanire. Se lasciamo che le emozioni provate diventino sentimenti e virtù allora potremo dire di aver imparato una grande lezione: la compassione non è la degnazione di chi sta bene nei confronti del meno fortunato o dell’incapace, piuttosto è la virtù di coloro che sentono la sofferenza del prossimo, la fanno propria e insieme lottano per arginarla e superarla, sorpresi dal fatto che condividere la prova è già una vittoria.
«L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona». (Deus Caritas Est di Papa Benedetto XVI).
Nel poema epico caro a Papa Francesco, dal titolo «El gaucho Martin Fierro», così si esprime il protagonista: «Dio fece belli i fiori, delicati come sono: gli dette tutta la perfezione di cui fu capace». E poi aggiunge: «Ma all’uomo ha dato di più, quando gli ha dato il cuore».
La testimonianza eroica di Sant’Alessandro ci renda capaci di esercitare la virtù della compassione nella Chiesa e nella città di tutti.
*Vescovo di Bergamo
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