L'Editoriale
Sabato 04 Marzo 2023
La Chiesa e l’Ici, facciamo chiarezza
Il commento. La Chiesa non paga l’Ici. Quante volte l’abbiamo sentito il motivetto? È una di quelle fake news che a furia di sentirsele ripetere finiscono per diventare certezze. Ieri l’Unione europea ha dato indirettamente un altro colpo di martello al chiodo della Chiesa che non paga l’Ici, dando la solita stura alla solita ondata generalizzata di indignazione.
Agenzie, radio e Tv ci hanno dato dentro, questa mattina editorialisti laici e laicisti col sopracciò vergheranno fondi sdegnati (basta tirar fuori dal cassetto lo stesso fondo dell’anno scorso e cambiare la data), i social hanno dato a stura a improperi di ogni genere su questa Chiesa di Papa Francesco che parla di scarto, predica l’aiuto ai poveri e poi razzola male e non paga le tasse. Peccato che si tratti di fandonie sesquipedali, leggende metropolitane buone per una chiacchiera al bar dopo il terzo spritz o qualche sito laicista di balordi anticlericali (gli anticlericali seri si informano). I coccodrilli a New York escono dalle docce, i cinesi non muoiono mai e la Chiesa non paga l’Ici. Ma vediamo di ricostruire i fatti.
L’Imposta comunale sugli immobili (Ici, oggi Imu) è stata istituita nel 1992 per tassare gli stabili. La legge che la istituiva esentava una lunga lista di strutture, e tra queste vi erano anche gli immobili posseduti da enti non commerciali, ma solo a patto che all’interno vi si svolgessero esclusivamente attività dette «non profit»: assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonché attività di religione e di culto. Dunque le esenzioni riguardavano gli immobili di tutti gli enti non profit, non solo quelli di proprietà della Chiesa. Alberghi o ristoranti non erano affatto esenti dall’Ici, anche se gestiti da realtà ecclesiastiche. Aveva avuto molto successo la storia della «cappelletta», cioè il trucchetto che bastava mettere una camera con un altarino in un albergo per essere esentati. Ma non è mai stato così: non è mai bastata una cappellina, nemmeno se lo facevano le suore, per evitare di pagare le tasse sugli immobili.
A partire dal 2006 la Commissione europea ha ricevuto una serie di denunce che contestavano la legittimità delle esenzioni Ici al non profit. L’iniziativa nasceva dal partito radicale e da due realtà che si ritenevano danneggiate dalla concorrenza (una scuola elementare romana e un bed&breakfast toscano) e ha prodotto un lungo contenzioso con Bruxelles.
Il 19 dicembre 2012 la Commissione europea ha emanato una decisione nella quale, alla luce delle norme Ue sugli aiuti di Stato, ha considerato effettivamente illegittime alcune delle agevolazioni Ici. Bruxelles non ha messo in discussione i sostegni alle attività sociali, ma ha rilevato che per il diritto europeo non potevano essere concessi in quel modo, cioè sulla base dell’assenza dello scopo di lucro di un’attività economica. Tutto discutibile, ma la Chiesa si è adeguata e ha detto che avrebbe pagato. Allo stesso tempo la Commissione ha poi riconosciuto che sarebbe stato impossibile per l’Italia recuperare parte delle somme a causa della difficoltà di ricostruire il dovuto dalle banche dati catastali e fiscali. Inoltre ha «promosso» le agevolazioni della «nuova» imposta che dal 2012 ha sostituito l’Ici, cioè l’Imu.
Sulla cifra che lo Stato avrebbe dovuto recuperare circolano cifre fantasiose, la più ricorrente è quella dei 5 miliardi, che ha avuto molta presa forse perché basata sulle cinque dita della mano, con presa scenografica notevole (alzare la mano in un talk show e gridare «la Chiesa deve all’Italia 5 miliardi di euro!» fa un certo effetto). La fonte della cifra è attribuita all’Ufficio studi dell’Anci, che in realtà non ha mai fornito cifre in merito. L’unico ad averle fornite veramente è il Tesoro, che però ha calcolato in 100 milioni l’anno per sei anni l’ammontare delle esenzioni Ici concesse a tutto il non profit italiano (tutto, non solo gli enti gestiti dalla Chiesa, anche, per dire, i circoli Arci, la canottieri di Trastevere o le sedi dei sindacati). «Embeh? Che vuol dire», si potrebbe obiettare. Le tasse non si evadono, che siano 5 miliardi o 600 milioni di euro. Peccato che non si tratta di tasse evase, ma di imposte che lo Stato italiano non ha mai chiesto agli enti non profit. Se ora le esige, si accomodi. Si toglieranno soldi a chi ha bisogno nel nome del padre, del figlio e della santa concorrenza, ma il Vangelo dice «dai a Cesare quel che è di Cesare».
Ma che cosa ha detto ieri la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue? Semplicemente il Tribunale del Lussemburgo ha confermato che gli aiuti della nuova Imu concessi alle attività sociali sono conformi al diritto europeo, ma ha annullato la decisione con cui la Commissione aveva giudicato impossibile recuperare gli sconti della «vecchia» Ici sulle attività economiche del non profit. Questo perché, secondo i giudici, l’Italia avrebbe potuto trovare modalità alternative per riscuotere almeno parte delle somme. La Corte ha detto: quei soldi vanno recuperati. E la Chiesa? Non si è mai sognata di dire: no non pagheremo le tasse, anche se si tratta di attività che vanno a vantaggio di gente che ha bisogno. Semplicemente si è adeguata. Ma non tocca certo al Vaticano o alla Cei stabilire quanto deve pagare e a proposito di quali immobili. Tra l’altro, proprio l’altro ieri Papa Francesco ha disposto l’abrogazione delle norme che permettono l’uso gratuito o a condizioni di favore degli immobili di proprietà delle Istituzioni curiali e degli Enti che fanno riferimento alla Santa Sede, comprese le abitazioni vaticane dei cardinali.
Lo spirito ecclesiale, come si vede, va in tutt’altra direzione dell’evasione fiscale e non fa sconti neppure agli alti prelati. Va ricordato infatti che su tutti quegli immobili posseduti dalla Santa Sede, privati e profit, eredità dello Stato Pontificio e del Concordato, la Chiesa ha sempre pagato l’Ici. L’Apsa, l’agenzia vaticana che gestisce gli immobili sparsi nel territorio nazionale ha pagato – per dare un dato - nel 2018 la bellezza di 9,2 milioni di euro di Imu (la vecchia Ici). Anche per gli immobili di Propaganda Fide, il cui scopo è alimentare le missioni di tutto il mondo. Le tasse vanno pagate, ha ricordato all’Angelus Francesco. E infatti la prima a pagarle è la Chiesa. Certo, non paga gli immobili del Vaticano, come sostengono gli ignoranti o quelli in mala fede, ma il Vaticano è uno Stato Sovrano e dunque esente dalle tasse, a meno che l’Italia non voglia invadere San Pietro e annetterlo al territorio italiano.
© RIPRODUZIONE RISERVATA