La capacità di azione che manca all’Italia

In una recente intervista al quotidiano «la Repubblica», il premio Nobel Giorgio Parisi ha raccontato di essere stato messo in minoranza, nella riunione del condominio presso cui risiede, in merito alla proposta di installare dei pannelli fotovoltaici. Parisi ha affermato che «hanno vinto resistenze, complicazioni e burocrazia»; e ancora che «è una cosa complicatissima installare ciò che servirebbe per rendere meno acuta la crisi energetica».

Queste affermazioni inducono una profonda riflessione su un paio di argomenti: uno di carattere generale e uno più specifico al nostro Paese. Il primo è il valore della democrazia, che ci rende uguali nelle decisioni che richiedono la formazione di una maggioranza e su tematiche di carattere generale, ovvero al di fuori di un’organizzazione professionale caratterizzata da livelli di pertinenza, gerarchia e responsabilità. Premio Nobel o semplice cittadino, quando si tratta di decidere le questioni della vita di tutti i giorni, che hanno peraltro un impatto diretto sulle tasche di ciascuno, non c’è differenza: uno vale uno. E questo non significa che chi ha votato contro l’installazione dei pannelli non sia favorevole alle energie rinnovabili. Semplicemente, la sua valutazione complessiva è negativa.

E qui arriviamo al secondo punto, quello più italico, che si riassume nella immensa difficoltà di far accadere le cose e di portarle avanti. Non basta approvare una legge per introdurre un cambiamento. Servono i decreti attuativi, i regolamenti, talvolta le consultazioni, l’avallo di più organismi, la firma di più ministri. E in questo percorso, assolutamente normale in una società complessa ed evoluta, occorre che il potere sia associato alla responsabilità. Purtroppo, le esperienze degli ultimi anni, salvo limitate parentesi bipartisan, ci parlano di un Paese sprovvisto di una capacità di azione efficiente ed efficace. Per fare (davvero) le cose in Italia, alcune volte servono situazioni eccezionali, anche drammatiche, dalle Olimpiadi alle crisi finanziarie, sanitarie e alle guerre. Altre volte, nemmeno la causa maggiore è sufficiente: passata la crisi l’elastico, per dirla metaforicamente, ritorna nella posizione iniziale.

Il secondo aspetto citato condiziona anche il primo. Forse, con una minore complessità, per non aggiungere altro, anche l’esercizio di democrazia, avrebbe dato un esito diverso con la felicità di Giorgio Parisi. Da queste considerazioni deve, a mio avviso, partire il nuovo Governo. Seguendo per ogni ministero l’iter del nostro premio Nobel: prima scegliere le cose da fare, che sono quelle condivise da tutti i partiti che sostengono l’esecutivo, e poi fare in modo che si possano realizzare, possibilmente non solo con un rendering né in tempi biblici. La scelta dei ministri, a cui oggi i vincitori delle elezioni sono chiamati, dovrebbe proprio partire da qui: per ciascuno di loro un mandato politico chiaro e condiviso e una capacità realizzativa calibrata su una nazione appesantita, quanto dal debito tanto dalla burocrazia, e forte di diffusi poteri interdittivi. Senza un mandato politico il miglior tecnico può davvero poco e senza capacità attuativa anche il politico più navigato rischia di non combinare un granché. Per questo motivo il dibattito sui ministri tecnici o politici è solo un discorso a metà.

Se il nuovo premier incaricato, nella formazione del Governo, partirà da qui e non dai, pur necessari, equilibri condominiali, per tornare al nostro eminente fisico, avrà fatto un passo nella giusta direzione. È questo l’augurio di tutti.

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