La campagna fatta sui nomi non parla d’Europa

ITALIA. È sotto gli occhi di tutti come il voto europeo si sia concentrato sulla personalizzazione delle candidature. Lo hanno fatto in particolare Giorgia Meloni, Elly Schlein e Antonio Tajani, che verranno certamente eletti ma rinunceranno a fare parte del Parlamento europeo per cui chiedono di essere votati.

Gli interessi di partito mettono dunque in secondo piano il rispetto di uno dei principi fondamentali della già traballante «democrazia rappresentativa». Questa sfida sul voto è particolarmente esaltata dalla nostra premier, nella dichiarata convinzione che una maggiore forza rappresentata dai voti basterà per condizionare le successive scelte politiche e finanziarie che il nuovo Parlamento europeo sarà chiamato ad affrontare.

Un riferimento ricorrente riguarda la possibilità di modificare la legge di bilancio, nascondendo agli elettori che la nuova legge di bilancio è, di fatto, già entrata in vigore. Il governo stesso a fine anno l’ha approvata e assai poco conta che il partito della premier si sia astenuto dalla sua approvazione nell’ultima riunione del Parlamento europeo, incomprensibilmente seguito anche dal Partito Democratico. Successivamente, infatti, il Consiglio Ue dei ministri dell’Agricoltura, in cui era assente il ministro Lollobrigida sostituito dal sottosegretario leghista D’Eramo, ne ha dato definitivamente il via libera. Privilegiando esigenze di «tattica» elettorale, la Meloni dimostra di non avere alcun interesse a fare sapere ai cittadini chiamati al voto che queste nuove regole ci vedranno tra gli undici Paesi gravati di un deficit eccessivo (circa il 7%, il più alto del 2023) e che ciò renderà necessario adottare provvedimenti di bilancio molto restrittivi già nella prossima estate.

Lo ha fatto intendere il ministro Giorgetti e lo ha evidenziato in modo chiaro la Banca d’Italia, che nel recente «Rapporto sulla stabilità finanziaria» sottolinea come il debito pubblico elevato rappresenti un rischio per la stabilità finanziaria del Paese soprattutto se, in rapporto al Pil, non si tornerà su un sentiero di riduzione. Il Rapporto evidenzia anche che per contrastare il rischio del debito è indispensabile non solo promuovere la crescita ma, soprattutto, «migliorare il disavanzo strutturale». Peraltro, nessun riferimento è fatto ad altri problemi che il governo sarà chiamato ad affrontare. Tra questi: il necessario superamento al «no al Mes», che blocca il Meccanismo di stabilità per tutti gli altri Paesi europei che lo hanno già votato; il ritardo sul Pnrr, certificato dalla proposta del ministro Giorgetti di far slittare in avanti le scadenze; il continuo rinvio, per mere esigenze elettorali, del recepimento di importanti direttive sulle quali il governo è già stato sollecitato anche dal Consiglio di Stato, come quelle su balneari e ambulanti. A ciò va aggiunta l’impossibilità di ricorrere a deficit di bilancio.

C’è da chiedersi se un consistente consenso elettorale sarà sufficiente per contribuire a risolvere tali problemi. Del tutto incomprensibile è anche la decisione del Governo di concentrare a Palazzo Chigi la gestione del Pnrr, proprio mentre i parlamentari della maggioranza, sollecitati dalla Lega, fanno di tutto per fare approvare al più presto l’Autonomia differenziata, che dovrebbe attribuire tale compito alle Regioni. Poco chiare, poi, sono le diverse posizioni dei partiti su quale Europa si intenda disegnare per il futuro. È abbastanza evidente come il progetto delle destre «sovraniste» di cui si fa protagonista Matteo Salvini, si proponga di svuotare di ogni contenuto politico l’originario progetto federalista europeo. Ad un’Europa federale guarda Forza Italia, ponendosi in sintonia con tutte le espressioni del cosiddetto centro-sinistra. Non è assolutamente chiaro, invece, quali siano gli obiettivi di Fratelli d’Italia, che si presenta con lo slogan «Italia che cambia l’Europa». Giorgia Meloni si è sempre dichiarata contraria ad un’Europa federale ma, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, si è spesso soffermata sulla necessità di costituire un «esercito europeo» che rende necessario l’esercizio di una «politica estera comune». Non si comprende come questi compiti, che presuppongono una «strategia governativa», possano essere affidati ad un Consiglio europeo di 27 Paesi che godono del diritto di veto.

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