Kiev, summit per la pace: qualcosa si muove

MONDO. Super escalation militare dell’Occidente da una parte e contemporanee aperture diplomatiche dall’altra. Sì del presidente ucraino Zelensky alla partecipazione russa al «summit della pace», ma immediata risposta gelida del Cremlino a tale offerta. Finalmente qualcosa si muove ad Est.

Ormai sono in troppi nella comunità internazionale a pensare che la tragedia russo-ucraina sia andata troppo in là ed è venuto il momento di tentare qualcosa. Il punto centrale, secondo gli americani, è mostrare a Putin che non può vincere sul campo di battaglia, come il capo del Cremlino ha pensato in inverno, quando sembrava che il fronte potesse cadere. La fornitura di armi occidentali a Kiev può fare la differenza anche se essa non è forse in grado di cambiare del tutto il corso di un conflitto caratterizzato da combattimenti in trincee con l’uso di artiglierie pesanti e droni sofisticati.

Ucraini e russi sono oggi impantanati in uno scontro di posizione di lunga durata. Se Mosca può contare - come dicono le intelligence Usa e Sud coreana - su Iran, Cina e Corea del Nord, adesso Kiev ha dietro di sé un piano pluriennale di approvvigionamento di armi, approvato al recente summit della Nato a Washington. In pratica, impasse sul piano militare, a meno di improbabili svolte clamorose, oggi non preventivabili.

Le ragioni dell’apertura diplomatica di Volodymyr Zelensky sono di vario genere: la prima è che, una volta ottenuto l’appoggio politico e le armi dall’Occidente, il presidente ucraino ha ributtato la palla nel campo diplomatico russo in modo che tutti vedano chi vuole fare la pace e chi no. Kiev è disposta ad aprire un negoziato secondo il diritto internazionale, il quale è chiarissimo su sovranità nazionale e inviolabilità dei confini.

La seconda ragione è che i «summit della pace», come l’ultimo in giugno sul lago di Lucerna, hanno ormai raggiunto il massimo degli obiettivi possibili. È venuto il momento che le parti in causa inizino a parlarsi alla presenza di seri mediatori. L’Occidente sta pertanto imprimendo una brusca accelerazione agli eventi. Si ha la sensazione che si voglia chiudere la partita con l’Amministrazione Putin entro dicembre, prima dell’inizio del nuovo mandato presidenziale Usa nel gennaio 2025, o perlomeno indirizzarla nella direzione più congeniale alle cancellerie europee e nord-americane.

Veniamo alla Russia. Putin ha impostato un corso economico in cui le spese militari avranno a lungo un peso sempre maggiore riducendo le possibilità di sviluppo e del welfare. Il Pil cresce, ma non nei settori giusti. Petrolio e gas non regalano più i proventi del passato. Il Paese è isolato e il Cremlino sta svendendo all’estero le risorse energetiche a prezzi super-scontati. Il problema di Putin è ora il fronte interno. Come dicono i sondaggi, il 70% dei russi vuole l’apertura di una trattativa con Kiev. L’aumento delle tasse, firmato venerdì scorso, è una palese violazione del tacito accordo sancito fra potere, business e popolazione nel 2001 con la flat tax. L’attuale situazione ricorda lo choc del 2018 per la vergognosa riforma delle pensioni. Finora i russi continuano a vivere nella loro corazza, ma la propaganda ormai non fa più breccia. La gente appare stanca di avere le carte di credito internazionali bloccate e di non poter volare all’estero dove vuole.

La Russia di oggi non è l’Urss di ieri. Che Putin non faccia anche questo errore. Ma dimenticare quali condizioni capestro ha lui posto a Kiev poche settimane fa - per accogliere di corsa la proposta Zelensky - renderebbe lo zar debole agli occhi dei suoi connazionali.

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