Ius scholae, la Costituzione la grande assente

ITALIA. Non è la prima volta che ad agosto, quasi fosse una chiacchiera da ombrellone o un diversivo (tipo il calciomercato), nel dibattito politico (che esiterei a definire pubblico, vista l’angustia in cui si consuma) compare il fantasma della riforma della cittadinanza: ius soli sì, ius soli no, ius scholae, ius culturae…

Perché allora prenderlo sul serio? Perché il tema è di primaria importanza e ne vanno riaffermate la serietà e l’urgenza. E proprio perché serio, questo tema va sottratto all’esclusiva dei partiti, purtroppo spesso non all’altezza delle poste in gioco. C’è un’insostenibile leggerezza, per non dire un’imperdonabile irresponsabilità, nel modo in cui il dibattito partitico affronta la questione, non curandosi anche delle aspettative che essa genera e delle biografie che sospende. Vediamo perché…

La riforma dei criteri di accesso alla cittadinanza italiana è la posta in gioco dell’introduzione eventuale dello ius soli e/o dello ius scholae, o di altro ancora. E cioè la porta di accesso, tecnicamente parlando, al «popolo» italiano. Il popolo è l’insieme dei cittadini e la Costituzione – la grande assente del dibattito – attribuisce la sovranità proprio al popolo. Istituzioni e partiti sono invece «forme» con cui i cittadini esercitano i loro poteri sovrani. Per essere più chiaro: prima viene la definizione del popolo (che è sovrano), e poi il gioco delle istituzioni e dei partiti. È quindi un grande paradosso che la definizione di popolo (che è sovrano) sembri abbandonata alle schermaglie dei partiti (che sono strumenti del popolo). Quasi che l’estensione del popolo stesso possa ampliarsi o restringersi a seconda del colore della maggioranza del momento. Questa inversione dei termini lascia intendere ciò che non è, e cioè che la Costituzione non dica nulla sul popolo e sulla sua composizione; e che dunque il tutto sia rimesso agli equilibri precari delle maggioranze cangianti. E oggi la situazione appare pure peggiore, perché si ha la sensazione che si sollevi il tema della riforma della cittadinanza solo per saggiare e stuzzicare la tenuta della maggioranza. In Italia, in forza di una legge ormai vecchia, la cittadinanza si riconosce soprattutto per sangue e cioè, alla nascita, a colui che sia figlio, anche adottivo, di (almeno) un genitore italiano. Questo vuol dire che la cittadinanza resta attaccata, come un privilegio, anche ai figli di cittadini, magari nati all’estero, perché figli o anche nipoti di emigranti italiani. Mentre è preclusa ai tanti che vivono, studiano e lavorano da anni nel nostro Paese, ma che, in quanto figli di stranieri, stranieri restano. La Costituzione richiede certo un’attuazione legislativa e tuttavia sulla cittadinanza dà un’indicazione forte, laddove caratterizza il cittadino per il suo doveroso concorso al progresso materiale e spirituale della società (art. 4).

È insomma la partecipazione a fare il cittadino e cioè l’impegno a prendere parte alla tessitura quotidiana della convivenza. Insomma, la cittadinanza costituzionale ha molto più a che fare con la scuola (ius scholae, appunto) e con il lavoro, che con il sangue o con il luogo in cui si è nati. Prendere parte attraverso la scuola e attraverso il lavoro significa (predisporsi a) contribuire all’organizzazione sociale, economica e politica del Paese. Uno Stato a forte immigrazione e in transizione demografica, ma soprattutto uno Stato con una Costituzione come la nostra, dovrebbe prendere sul serio la situazione che si è venuta a creare; e cioè quella di una partecipazione democratica che - tra astensionismo distratto, astensionismo disgustato, astensionismo involontario ed esclusione (per gli stranieri) - sta tornando a essere il privilegio di una minoranza che esiterei a definire una aristocrazia…

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