L'Editoriale
Sabato 27 Novembre 2021
Italia e Francia
Secondo motore Ue
La pandemia e il tempo. Sono questi i due potenti fattori che hanno impresso la spinta decisiva alla firma del Trattato del Quirinale, il patto siglato da Mario Draghi (ma avviato dall’allora premier Paolo Gentiloni nel 2017) ed Emmanuel Macron per sancire un’alleanza strategica tra Italia e Francia. La pandemia ha scompaginato tutte le certezze dell’Unione Europea e l’ha spinta ad abbandonare i criteri che parevano scolpiti nel marmo e che, a causa o forse grazie al virus, sono diventati di fatto insostenibili, prima fra tutte la «politica del rigore» che Draghi e Macron vogliono mettere per sempre al bando. E poi il tempo: quello che sta spingendo fuori dalla scena politica la figura centrale di Angela Merkel e che, complice il rodaggio del nuovo Governo, inevitabilmente ridurrà l’influenza continentale della Germania.
Non a caso, dietro il patto italo-francese si staglia in trasparenza sempre lei, la Germania. Fin dal nome: il Trattato del Quirinale mima il Trattato dell’Eliseo che nel 1963 diede avvio all’intesa franco-tedesca che ha finito poi per dominare le sorti della Ue e che nel 2019 è stata ribadita ad Aquisgrana dallo stesso Macron e dalla Merkel. Certo, nel 1963 si confrontarono De Gaulle e Adenauer. Ma ci sono temi che non passano mai di moda. Allora la Francia chiedeva una guida della Nato tripartita tra le potenze nucleari (Usa, Regno Unito e appunto Francia) e il rifiuto inglese la spinse a mettere il veto all’ingresso di Londra nella Ue. Oggi Draghi e Macron ribadiscono la necessità di un sistema di difesa europeo, non alternativo ma autonomo rispetto a quello Usa.
Draghi e Macron sono troppo astuti e intelligenti per non sapere che prima o poi anche il tramonto della Merkel sarà metabolizzato e Berlino tornerà al posto che le compete. Immaginano quindi il loro Trattato come un secondo motore per l’Europa. Il che va bene a entrambi. A noi perché da tempo l’Italia non «pesava» tanto in Europa. È una rimonta, non un trionfo, ma è destinata a durare all’ombra di quella specie di certificato di garanzia che Mario Draghi rappresenta in certi ambienti. Alla Francia poi va benone, perché Parigi di fatto tiene il piede in due scarpe. Per dirla in altro modo: i suoi ministri saranno gli unici a partecipare ai Consigli dei ministri sia di Italia sia di Germania. Aleggia su tutto lo sguardo soddisfatto degli Usa, che vedono le sorti dell’Europa giocate solo dai loro più fedeli alleati: Germania, Francia e Italia da un lato, per non parlare dei pretoriani dell’Alleanza Atlantica che popolano l’Europa dell’Est (Polonia, Repubblica Ceca, Paesi baltici) e che contano sempre più negli equilibri continentali.
Nel caso di questi Trattati, infine, spunta sempre la tentazione di chiedersi, al di là della politica, chi ci guadagna e chi ci rimette. Dal punto di vista economico si sa che negli ultimi anni siamo stati piuttosto sulla difensiva. Una vasta eco ebbe, a suo tempo, il rapporto Kpmg secondo cui dal 2000 al 2018 gli imprenditori francesi avevano acquisito 364 aziende italiane per un valore di 72 miliardi di euro e quelli italiani 231 aziende francesi per 41 miliardi. E non sono mancati gli screzi, anche in tempi recentissimi, primo fra tutti quello sulle mancate nozze Fincantieri-Stx. Difficile, però, che a questi problemi possa porre rimedio un Trattato, qualunque esso sia. Conta il sistema Paese, il suo dinamismo, la sua solidità, la sua affidabilità. Anche la diversa interpretazione del complesso e controverso concetto di «interesse nazionale». Se abbiamo delle falle non è certo colpa della Francia.
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