L'Editoriale
Martedì 29 Giugno 2021
Intervenire nel Sahel
la svolta Italia-Usa
Mario Draghi lo dice un giorno sì e l’altro anche: la vocazione dell’Italia è europeista e atlantista. Non può che essere stato cordiale, quindi, l’incontro con Anthony Blinken, segretario di Stato di una presidenza Usa che si è data il compito, quasi statutario, di radunare intorno alla Casa Bianca i vecchi alleati, frastornati e un po’ umiliati da quattro anni di umori alterni di Donald Trump. D’altra parte Draghi, al di là delle convinzioni politiche e ideali, è uomo che sa far di conto. Stare coperti nella Ue e nella Nato è l’unica soluzione razionale per un Paese, il nostro, che non ha la forza né le risorse e, diciamocelo, nemmeno il coraggio per navigare con troppa autonomia nel mare in cui si muovono Paesi come Usa, Germania e Russia ma anche Regno Unito e Francia.
Quella di Blinken a Roma, però, non è stata una giornata qualunque. Prima di Draghi ha incontrato Papa Francesco, subito dopo il presidente Mattarella, il tutto alla vigilia del G20 di Matera sotto la presidenza italiana. Ma soprattutto ha co-presieduto, insieme con il nostro ministro degli Esteri Di Maio, una conferenza degli 83 Paesi che compongono la coalizione globale anti-Isis e che hanno ribadito che le truppe dell’islamismo armato non hanno più il Califfato ma non hanno perso le motivazioni e nemmeno le risorse, visto che si contano almeno 10 mila miliziani nel solo Medio Oriente. Potremmo esercitarci nella critica, considerando che nei giorni scorsi l’aviazione Usa ha colpito non l’Isis ma alcune basi delle milizie sciite filo-iraniane che ora punzecchiano gli americani con attentati e droni ma che in passato furono decisive nel contenere l’avanzata dell’Isis in Iraq. La politica è quella che è, oggi alla Casa Bianca preme soprattutto riportare al tavolo delle trattative un Iran che, nel frattempo, ha eletto un presidente conservatore al posto del riformatore Rouhani.
Pare però interessante un altro fatto. La conferenza sull’Isis si è conclusa auspicando, parole di Di Maio, la formazione di un gruppo di lavoro sull’estremismo islamista in Africa. E Draghi e Blinken hanno parlato anche di Libia, della difficile opera di stabilizzazione del Paese e delle rotte delle migrazioni che, dalla fascia del Sahel, arrivano a destabilizzare il Mediterraneo e a riempirlo di vittime innocenti. Senza esagerare con l’ottimismo, potrebbe essere il segnale che finalmente la grande politica (e speriamo quella europea in primo luogo) si sta affrancando dall’ossessione mediterranea che l’ha imprigionata negli ultimi anni. I grandi problemi del Mare Nostrum non nascono in Libia ma nell’Africa sahariana e subsahariana. Se non si lavora bene là, non si otterrà nulla qua. Avrà inoltre scarsa efficacia quello che pare il piano della Ue, ovvero replicare in altri Paesi gli accordi siglati con Libia e Turchia, pagati per bloccare i migranti prima che arrivino in Europa.
Un simile cambio di mentalità (intervenire sulla testa del problema, non più sulla coda) sarebbe un enorme progresso. Anche e soprattutto perché i problemi sono collegati: l’infiltrazione dell’Isis nelle infinite questioni etniche e politiche dell’Africa disgrega i governi, approfondisce le fratture, blocca i progressi, accentua la povertà, incentiva le popolazioni a una fuga disperata su cui, poi, gli islamisti lucrano sontuosi profitti. Non si può occuparsi di una cosa senza intervenire sull’altra.
Che sia necessario intervenire, poi, è ormai di una chiarezza lampante. Nei Paesi del cosiddetto G5-Sahel, ovvero Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, da più di un decennio avviene quanto è ben descritto in un rapporto del Centro alti studi della difesa: «Al banditismo locale e ai traffici leciti e illeciti (stupefacenti, esseri umani, armi, ecc...), che da sempre hanno caratterizzato le rotte del Sahara e del Sahel, da alcuni anni si è aggiunta l’introduzione del fondamentalismo islamico, mediato dall’arrivo d’ideologie integraliste provenienti dal Medio Oriente… le quali mirano a radicalizzare un Islam invece tradizionalmente tollerante e aperto… minando le fondamenta di società fragili e d’istituzioni politiche deboli». Da quelle parti sono presenti da tempo, con contingenti più o meno forti, tutti i maggiori Paesi, e da poco anche l’Italia. Nessuno sembra avere ancora le idee chiare su che cosa si debba fare. Ma che si debba fare qualcosa, e farlo lì, non si può più negare.
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