In Israele una crisi democratica profonda

Il commento. Da undici settimane Israele, il Paese di solito definito «l’unica democrazia del Medio Oriente», vive una crisi democratica senza precedenti. A innescarla è stato il progetto di riforma della giustizia avanzato dal Governo di Benjamin «Bibi» Netanyahu, vincitore delle ultime elezioni e relativamente forte in Parlamento, dove controlla 64 dei 120 seggi.

Contro il progetto si è mobilitata una parte importante del Paese (in alcune manifestazioni è sceso in strada quasi il 10% della popolazione totale), convinta che non di riforma si tratti ma di un attacco, appunto, alla democrazia. Una mobilitazione che, nelle scorse ore, è persino riuscita a isolare Israele dal mondo, bloccando i voli aerei. Ferme le Università, i sindacati hanno proclamato uno sciopero generale che vede d’accordo persino i manager delle grandi aziende. E il ministro della Difesa Yoav Galant, poi subito silurato, aveva avvertito che anche nell’esercito, istituzione fondamentale di Israele, si stavano aprendo le prime spaccature. Risultato: persino il presidente Herzog ha chiesto di fermare l’iter legislativo e Netanyahu ha accettato di rinviare tutto all’estate.

Conviene qui ricordare i capitoli più contestati della cosiddetta «riforma». Primo: le decisioni della Corte suprema, che a lungo ha svolto la funzione di moderatore rispetto a certi eccessi, potrebbero essere rovesciate da una maggioranza semplice in Parlamento. Secondo: alla Corte suprema verrebbe tolto il potere di controllare la legalità delle cosiddette «leggi fondamentali», quelle che in Israele tengono il posto della Costituzione. Terzo: l’equilibrio della commissione, formata da politici e magistrati, che oggi sceglie i giudici della Corte verrebbe spostato a favore del Governo. In poche parole, addio indipendenza della magistratura, grazie a una «riforma» che molto somiglia a quelle implementate in Paesi come Ungheria e Polonia. Per questo chi protesta sente di battersi non per l’uno o l’altro schieramento ma per la sopravvivenza della democrazia.

Non v’è chi non veda, però, che la crisi attuale è solo la fiaccola che illumina una crisi più ampia e di lunga durata. In tre anni e mezzo, Israele è andato a elezioni politiche cinque volte. Alla fine rispunta sempre Netanyahu che, a 73 anni, è già il politico che ha occupato per più tempo la carica di primo ministro. Un successo personale che, per realizzarsi, ha però dovuto assecondare una deriva ben rappresentata dal Governo attuale, basato sull’alleanza quadripartita tra Likud, Partito sionista religioso, Giudaismo unito nella Torah e Shas e prendendo a bordo anche gli estremisti di Potere ebraico, ritenuti i successori ideologici del partito Kach che fu sciolto dal Governo nel 1994. Uno scivolamento verso destra che ha le radici nel continuo privilegio accordato a gruppi prima minoritari e poi sempre più potenti come gli abitanti degli insediamenti e gli ultraortodossi. Privilegio sostenuto da ragioni politiche.

Gli ultraortodossi sono parsi per molto tempo l’unico argine al panico da sorpasso demografico, l’idea ossessiva (e poi smentita, anche con l’aiuto delle ondate migratorie come quella dai Paesi ex Urss negli anni Novanta) che gli arabi, facendo più figli, potessero in futuro «soffocare» la popolazione ebraica. E i cosiddetti «coloni» sono stati la punta di lancia del primordiale desiderio di espansione territoriale a cui Israele, anche per ragioni di sicurezza, non ha mai rinunciato. Non è certo un caso se dal 1973 a oggi la popolazione degli insediamenti è sempre andata crescendo, di anno in anno. Tutto questo, però, ha spaccato e confuso la società israeliana, nata laica nel 1948 e tuttora aliena all’estremismo religioso o para-religioso, visto che oltre il 45% della popolazione si definisce appunto «laica».

I patteggiamenti gestiti e subiti da Netanyahu sono stati ideologici ma anche concreti, se è vero che tra le ragioni della presunta riforma della giustizia c’era anche il timore suo per le inchieste sulla corruzione e quello dei partiti religiosi per una possibile limitazione di certe prebende come l’esenzione dal servizio militare. Vero o no che sia, gli effetti complessivi sono da undici settimane sotto gli occhi di tutti.

© RIPRODUZIONE RISERVATA