In gioco le radici del progetto unitario

MONDO. La partita delle Europee si gioca nell’arco di crisi che comprende Francia, Germania e Italia. In ballo c’è il futuro, e quale futuro, del continente.

L’annunciato e rumoroso tonfo di Macron per mano della coppia Marine Le Pen e Bardella (oltre il 32%, quota storica), e la decisione del presidente di indire le elezioni parlamentari a fine mese, danno la misura di un preoccupante cambiamento che mette in discussione le radici del progetto europeo. A partire da uno dei soci fondatori. La disfatta del presidente francese si appaia a quella dell’asse franco-tedesco, che è poi la coalizione pro Ucraina. Non solo i socialdemocratici tedeschi del cancelliere Scholz escono battuti, ma sorpassati da una inquietante estrema destra che diventa il secondo partito. In Austria passa in testa. Si profila un vento di destra che investe il continente: l’affermazione delle forze sovraniste bilanciata però dai moderati europeisti del Partito popolare, in particolare dall’azionista di maggioranza dei democristiani tedeschi, che ha espresso la candidatura di Ursula von der Leyen per il secondo mandato alla guida della Commissione europea.

Giorgia Meloni dovrebbe uscirne bene, meglio delle Politiche e più dell’asticella del 26%. Lo stesso vale per il Pd oltre il 23%, il che pone il partito di Elly Schlein alla leadership di un socialismo europeo ovunque in arretramento. Per Conte si preannuncia un crollo, mentre Salvini verrebbe sorpassato da Tajani. Renzi-Bonino e Calenda a parte inseguono la soglia di ammissione del 4%. Nonostante l’onda radicale, nessuna maggioranza parlamentare potrà essere formata a Strasburgo-Bruxelles senza la partecipazione congiunta di popolari e socialisti. Due le principali varianti a sinistra e a destra: coinvolgimento dei verdi o dei conservatori di Meloni. Il voto chiude la fase turbolenta del populismo, culminata nella Brexit del 2016, per riaprirla in modo diverso attraverso un radicalismo in via di ambiguo restauro: lo scontro politico cambia le coordinate. Le forze euroscettiche, passate alla fase 2, non intendono più uscire dall’Ue (avendo visto i vantaggi di restarci), ma stanno al gioco per svuotarne l’integrazione politica: più Stati nazionali, meno Unione.

Una situazione ibrida, non più dai confini netti, comunque un’Europa alternativa a quella di Bruxelles sui temi cruciali della politica estera e di difesa, gestione dell’ambiente e dei flussi migratori, riforme per ridurre il voto all’unanimità e quindi il diritto di veto degli Orban di turno. Un’offensiva interna che coincide con quelle esterne: guerra in Ucraina e protezionismi incrociati di Cina e Stati Uniti. Sovranisti e populisti, variamente declinati, sono già dentro le istituzioni di alcuni Paesi: Italia, Olanda, Finlandia e Slovacchia. E a livello comunitario hanno condizionato alcune scelte strategiche. Lo si è visto con il pur selettivo spostamento a destra del Partito popolare, che ha frenato sul Green Deal, il progetto più ambizioso della legislatura conclusa. Il primo passaggio politico è l’elezione del presidente della Commissione, il «governo europeo», il cui esito impatta poi su tutta la catena istituzionale. Il nome di punta è quello di von der Leyen che nel 2019 non era candidata, ma era uscita dal cilindro di Angela Merkel e di Macron. E che al recente congresso del Ppe, dopo aver aperto alla premier italiana, ha perso per strada il 18% dei suoi. Il/la presidente della Commissione viene indicato a larga maggioranza dai leader degli Stati membri, poi l’elezione tocca all’Europarlamento con voto segreto e a maggioranza assoluta. La volta precedente la politica tedesca, benché sostenuta dalla maggioranza centrista, ce l’aveva fatta con soli 9 voti di scarto e con il soccorso esterno dei grillini. Ora potrebbe profilarsi uno stallo, perché sembra crearsi un disallineamento senza precedenti fra Europarlamento, Commissione e governi che siedono nel Consiglio Ue. Lo dicono i numeri: i leader nazionali che rientrano nel Partito popolare sono 12 su 27, tuttavia nessuno di loro è alla guida dei grandi Stati membri. Sono all’opposizione in Germania, Francia e Spagna. La domanda, in un contesto molto divisivo, è: che tipo di collaborazione ci può essere fra la Commissione e i vari Macron, Scholz e Sanchez che hanno altre idee (a volte opposte) sui temi in agenda e sulla loro priorità? Ma vale anche il quesito rovesciato: che forza hanno oggi Macron in Europa, uscito sconfitto da quello che è stato un plebiscito contro di lui, e Scholz penalizzato in Germania?

Altra questione: ammesso e non concesso che la destra sovranista riesca a esprimere un «blocco coeso di minoranza», è priva di una piattaforma comune e dovrà comunque cambiare approccio per contare. Meloni, Le Pen, Orban non sono sovrapponibili. L’artiglieria pesante di Salvini contro la premier descrive la spaccatura in due fronti tra i sovranisti continentali: pro o contro Putin. Ma a questo punto sorge un’ulteriore domanda. Meloni - che gioca su due tavoli, quello di premier e di leader degli euroconservatori - può star fuori dai giochi a Bruxelles e soprattutto può essere esclusa? Il partito del futuro premier francese potrà essere emarginato dalla concertazione comunitaria? Le incognite superano le certezze su un doppio binario: il campanello d’allarme per i partiti tradizionali e per le stesse istituzioni, entrambi sfidati dall’onda lunga di un fenomeno di tempi difficili.

© RIPRODUZIONE RISERVATA