L'Editoriale
Giovedì 25 Marzo 2021
In Birmania bimbi uccisi
Superata ogni soglia
Si chiamava Khin Myo Chit, che significa «la patriota», 7 anni, la più giovane vittima della repressione del regime militare in Myanmar (ex Birmania). La polizia ha fatto irruzione nell’abitazione a Mandalay alla ricerca di qualcuno: non trovandolo, ha messo a terra la piccola, la sorella, il fratello e i genitori in una stanza. Alla richiesta di dove fossero le altre persone, il padre ha risposto che in casa vive solo la sua famiglia. Un poliziotto gli ha puntato la pistola e ha sparato, ma ha colpito Khin, che aveva cercato protezione proprio nelle braccia del papà. Il 1° febbraio scorso l’esercito ha preso il potere con un colpo di stato: ha arrestato tutti i principali leader del partito di maggioranza, tra cui la premio Nobel per pace Aung San Suu Kyi, che era di fatto capo del governo e ha dichiarato un anno di stato d’emergenza.
A guidare il golpe il capo delle Forze armate birmane, il generale Min Aung Hlaing, che in seguito ha assunto il ruolo di capo del governo, mentre l’ex generale Myint Swe, che dal 2016 era uno dei due vicepresidenti, è stato nominato presidente ad interim. Il colpo di stato è avvenuto nel giorno in cui si sarebbe dovuto riunire per la prima volta il nuovo Parlamento dopo le elezioni dello scorso novembre, vinte nettamente dalla Lega nazionale per la democrazia (Nld), il partito di San Suu Kyi, e perse dal Partito per la solidarietà e lo sviluppo dell’unione (Usdp), sostenuto dai militari. Dopo le elezioni, gli sconfitti avevano contestato i risultati accusando la Nld di brogli, generando tensioni tra le parti.
Il golpe ha innescato subito contestazioni di piazza e la brutale repressione dell’esercito, che ha fin qui provocato 261 morti, fra cui Kyal Sin, 19 anni, nota come l’«angelo» delle proteste. Secondo l’organizzazione non governativa «Save the children», tra le vittime oltre 20 erano minori. Sono invece 2.800 gli oppositori arrestati, tra cui 17 ragazzi e addirittura un bambino di 11 anni. Proprio ieri il regime ha liberato 600 persone, per coprire mediaticamente l’omicidio della piccola Khin. Ma non basterà: le proteste sono destinate a salire di tono e a ricompattare i birmani con la minoranza musulmana (come la bimba uccisa) reietta dei Rohingya, da sempre discriminata e maltrattata. Martedì un incendio ha devastato un campo dove sono profughi in Bangladesh, 15 persone hanno perso la vita, 400 sono disperse tra cui molti bambini, 560 ustionate e 9 mila baracche sono andate distrutte. Una morte orrenda: il filo spinato che circondava il miserabile campo ha impedito alle vittime di salvarsi. Migliaia di birmani hanno espresso solidarietà ai Rohingya ancora in Myanmar con lo slogan «siamo uniti, ora capiamo cosa si prova». Non era mai successo.
Le reazioni della comunità internazionale ai crimini in Birmania sono state fin qui labili. L’Unione europea ha approvato sanzioni contro 11 persone dell’entourage del regime, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha annunciato un embargo contro la Giunta militare mentre una risoluzione di condanna delle violenze proposta al Consiglio di sicurezza dell’Onu non è passata per il veto della Cina. Pechino è infatti interessata a rapporti di buon vicinato con il Myanmar e vuole preservare l’accesso alle sue cospicue ricchezze energetiche e minerarie.
Ieri ricorrevano intanto i sei anni dall’inizio della guerra in Yemen: 250 mila morti e la più grave carestia in corso mai vista negli ultimi decenni nel mondo, con 16 milioni di persone senza cibo e più di 2,2 milioni di bambini che potrebbero essere colpiti da malnutrizione solo quest’anno. Senza una giustizia internazionale e un nuovo ordine mondiale siamo destinati ad assistere ad altre catene di orrori. Intanto la politica è assente.
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