Impresa e lavoro, più ascolto e attenzione

ITALIA. Sono due le indicazioni politiche giunte dal maxi convegno «Innovare per tornare a crescere» di sabato 22 febbraio al Kilometro Rosso, su iniziativa di Energia popolare, area riformista del Pd (gli europarlamentari Stefano Bonaccini e Giorgio Gori).

La prima è la ripresa di un dialogo diretto con il mondo produttivo, specie del Nord, nel segno della reciproca chiarezza, e insieme l’interlocuzione sindacale: più ascolto e attenzione all’impresa e al lavoro, in cui tutti gli attori sono chiamati a mettersi in gioco. Un format all’esordio, quello organizzato dall’ex sindaco di Bergamo e dal presidente dem, che verrà replicato in altri distretti industriali. La seconda entra per via soft nel Pd, dove non sembra di vedere una grande dialettica interna, e peraltro (coincidenza di tempi) la convention di ieri segue gli incontri dei cattolici dem a Milano e dei liberal a Orvieto.

Il conflitto nel centrosinistra

Il garbo lessicale delle conclusioni di Bonaccini non oscura il sottotesto di una certa insoddisfazione verso la piega identitaria di Elly Schlein. Il leader riformista non ha alcuna intenzione di aprire un conflitto nel centrosinistra, ma nel chiedersi se «siamo pronti all’alternativa», non si dà una risposta certa. Certo, la coalizione deve imbastire un accordo minimo puntando all’unità, e qui scarta l’idea di Franceschini (correre da soli per poi unirsi in Parlamento), invitando ad alzare il dibattito oltre le miserie del chiacchiericcio quotidiano. Ma l’idea di Paese che questo pezzo di Pd offre come contributo all’attuale segreteria per costruire l’alternativa alla destra non è esattamente sovrapponibile, perlomeno in modo compiuto, alla linea Schlein. Bonaccini parla di un partito a vocazione maggioritaria, pur in modo diverso dalla vecchia formula, in grado di rappresentare le istanze di operai, imprenditori, partite Iva. Partito della crescita (formula detta e ridetta), della cultura industriale, non della decrescita felice. E poi: esplicito riferimento al Rapporto Draghi, nessun tentennamento nel sostegno al popolo ucraino, opzione per la Difesa comune. In una fase in cui l’incertezza sta diventando normalità di lungo periodo, occorre alzare lo sguardo: in balia di eventi a rischio ingovernabilità, ci sono il futuro dell’Europa terremotata da Trump, i costi umani e geopolitici della guerra in Ucraina che continua a tre anni dall’invasione russa, i dazi americani in gestazione oltre a quelli già in campo e l’incognita del voto di oggi in Germania.

La presenza della Cina

Su tutto la presenza ingombrante, ammirata e temuta, della Cina: parola, questa, la più ripetuta durante la maratona in casa Brembo. Se il colosso tedesco è in recessione da due anni, l’Italia, seconda manifattura europea e quarta al mondo per export, affronta uno dei tornanti più difficili della storia continentale con buona parte degli indicatori economici in cattiva salute: crescita, produzione industriale, automotive, salari. Il messaggio di politici e industriali è chiaro: l’industria, con la sua vitalità territoriale, va rimessa al centro della politica europea. Mercoledì Bruxelles presenta il suo progetto di Politica industriale, quasi uno sdoganamento, perché il rischio è la de-industrializzazione. Senza industria, è la stessa democrazia a risentirne per l’impatto devastante sulla coesione sociale e sui redditi dei ceti operai. Come dimostrano la parabola Trump e l’avanzata dei sovranisti. Perdere l’industria - è stato detto alla maniera di un accorato appello - significa perdere il lavoro e la natura stessa dell’uomo europeo. L’immagine dell’Ue uscita dal convegno è quella della fragilità di un vaso di coccio tra vasi di ferro: un grande regolatore, ma non un soggetto politico, dunque disarmato di fronte alle scelte dirompenti e di potenza dell’America.

Le regole del mercato

Quello delle regole è uno degli snodi più discussi da parte industriale, che ne colgono un approccio non amichevole, il peso burocratico, un qualche lascito ideologico e un’eccessiva rigidità: il settore dell’auto in ginocchio, un mercato fermo anche perché è crollato il potere d’acquisto dei consumatori, la transizione verde dai tempi troppo stretti. Due citazioni indicative degli umori. Matteo Tiraboschi, presidente esecutivo Brembo: «Non capisco questo accanimento europeo contro l’auto». Luca De Meo, ceo del Gruppo Renault: «La regolamentazione degli ultimi 20 anni ha fallito. Hanno voglia di spegnere un pilastro della competitività». Se il tema è appunto la riduzione del gap di competitività, e quindi la necessità di investimenti pubblici e privati di politica industriale come hanno fatto gli Stati Uniti di Biden, ci si chiede come questo deficit possa essere superato fra costi record dell’energia in Italia e assenza di un mercato unico europeo del settore.

La de-carbonizzazione

Indietro comunque non si torna e quindi avanti con la de-carbonizzazione, sapendo però che, a differenza degli errori compiuti nella precedente legislatura europea, occorrono pragmatismo e flessibilità per portar dentro imprenditori e lavoratori. Anche perché mentre si accusa l’Europa, un po’ il capro espiatorio, si dovrebbe ricordare che Bruxelles subisce la miopia dei singoli Stati che non vogliono né il debito comune né rafforzare la capacità fiscale dell’Ue. Il gioco si fa duro, i dissensi restano, ma la partita rimane aperta: fra ottimismo della volontà e pessimismo della ragione.

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