Il XXV Aprile ci ricorda il valore della libertà e del sacrificio per la Patria

«Il 25 Aprile ci ricorda che resistere è necessario, è un dovere, ieri come oggi. Ovunque la giustizia e la dignità vengano attaccate, umiliate, distrutte, ora e sempre, è necessaria la resistenza. Questo deve essere lo slogan, il grido che sempre deve accompagnare il nostro atteggiamento verso la guerra». Le parole della senatrice a vita Liliana Segre, che fu deportata ad Auschwitz, esprimono il senso della festa di liberazione nazionale dall’oppressore nazifascista che celebriamo oggi, in un contesto storico molto particolare, diversissimo da quello dell’anno scorso.

Impossibile parlare del 25 Aprile in modo formale e celebrativo quando alle porte di casa c’è un conflitto causato da un invasore che vuole piegare la volontà di un popolo coraggioso, un popolo che non si rassegna a perdere la sua libertà. Proprio a causa dell’eroica resistenza ucraina, delle tragedia e delle atrocità commesse ai danni della popolazione civile il 25 Aprile ci mostra tutta la sua pregnanza, ci fa capire ancora oggi quanto sia stato importante il sacrificio di tanti uomini e donne che ci hanno assicurato 75 anni di pace, di prosperità e di libertà.

Anche il capo dello Stato si è espresso in questo senso ricordando il giorno dell’insurrezione. Perseguire la pace non significa arrendersi alla prepotenza. Per Mattarella il 25 Aprile «rappresenta la data fondativa della nostra democrazia, oltre che di ricomposizione dell’unità nazionale. Una data in cui il popolo e le Forze Alleate liberarono la nostra patria dal giogo imposto dal nazifascismo». Dal nostro 25 Aprile, «dalla ricorrenza della data che mise fine alle ostilità sul territorio italiano, viene un appello alla pace. Alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza». Parole decise che arrivano nei giorni in cui in Parlamento e fuori si discute ancora sull’invio delle armi a Kiev e sull’invito alla resa del popolo di Zelensky per mettere fino al sacrificio di vittime. Un dilemma che lacera anche noi italiani ma che può trovare una risposta nell’articolo 11 della nostra Carta, che parla di legittima «guerra di difesa», mai guerra preventiva, mai «guerra santa», ma di difesa della patria sì. Durante la Resistenza anche nel caso dell’Italia «a pagare furono, come non mai, le popolazioni civili, contro le quali, in un tragico e impressionante numero di episodi sanguinosi, si scagliò la brutalità delle rappresaglie. Fu, quella, una crudele violenza contro l’umanità, con crimini incancellabili dal registro della storia, culminati nella Shoah. Un’esperienza terribile; che sembra dimenticata, in queste settimane, da chi manifesta disinteresse per le sorti e la libertà delle persone, accantonando valori comuni su cui si era faticosamente costruita, negli ultimi decenni, la convivenza pacifica tra i popoli».

Ecco dunque il senso di questa giornata. Ricordare che la pace non è una condizione naturale o scontata: rammentarsi sempre che a volte va conquistata col sacrificio di tanti (basterebbe leggere le lettere dei condannati a morte della resistenza). Celebrandola, soprattutto le nuove generazioni hanno un debito di riconoscenza nei confronti di chi ha dovuto lottare contro l’oppressore.

La nostra Carta Costituzionale, con le sue regole e i suoi principi supremi, ne è il frutto. Dobbiamo difendere il valore della libertà per quello che è e per quello che rappresenta, al di là delle ideologie e degli ideologismi, come si legge nel «Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, il protagonista del suo romanzo che saliva sulle montagne per combattere l’oppressore in nome della libertà e che non faceva mistero di odiare qualunque ideologia sottesa alla Resistenza. Solo così potremo onorare una festa basata sul sacrificio di molti.

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