Il valore del ricordo, gli abissi dell’odio

Il commento. Ieri il presidente Mattarella ha celebrato al Quirinale la «Giornata del Ricordo», istituita 20 anni fa per ricordare le vittime delle foibe - gli inghiottitoi carsici dove furono gettate le vittime - e del doloroso esodo dalmata-istriano. Anche la premier Meloni e il presidente del Senato La Russa hanno commemorato questa pagina atroce.

Una tragedia per lungo tempo dimenticata, anzi rimossa, «come se le brutali vicende che interessarono il confine orientale italiano e le popolazioni che vi risiedevano», ha detto il Capo dello Stato, «rappresentassero un’appendice minore e trascurabile degli eventi della fosca epoca dei totalitarismi o addirittura non fossero parte integrante della nostra storia». Su questi episodi la storiografia - antidoto al negazionismo e al giustificazionismo - ha ormai ricostruito quasi tutto. Ora tocca al Paese tramandarne la memoria, poiché «nessuno deve avere paura della verità».

Questa solennità civile ricorda le vittime uccise dai partigiani di Tito gettati nelle foibe e dell’esodo di istriani, fiumani e dalmati di origine italiana all’indomani della vittoria militare slava (ma i primi eccidi iniziarono già nel ’43). Il «giorno del ricordo» è stato istituito da una legge votata dopo un lungo e tormentato iter da quasi tutti i partiti nel 2004 (esclusa Rifondazione Comunista), in coincidenza con il trattato di pace del 10 febbraio 1947 tra Italia e Jugoslavia che ridisegnava i confini dei due Paesi. Una celebrazione nata fin dall’inizio tra le polemiche, tra chi accusò i suoi propugnatori di voler strumentalizzare questa ricorrenza da destra e chi tendeva a negare una delle pagine più orrende del comunismo con la scusa altrettanto pelosa di opporsi alla «riabilitazione di fascisti e repubblichini» e al pericolo di infangare la Resistenza. Molti esponenti, giornalisti e persino studiosi di centrodestra hanno tentato di farne quasi un ambiguo contraltare della Giornata della Memoria del 27 gennaio, quella dedicata allo sterminio di 11 milioni di persone tra cui 6 milioni di ebrei, come denunciarono storici del calibro di Angelo Del Boca e Giovanni Gentile. Il teorema è semplice: se ci furono vittime a destra come a sinistra allora in un gioco a somma zero tutti i carnefici sono uguali e dunque non ci sono carnefici, in fondo i nazisti fecero quel che hanno fatto un po’ tutti. Un tentativo gravissimo che peraltro finisce per ledere anche l’unicità e la sacralità della Shoah, un genocidio che va ricordato senza accostamenti fuorvianti. Dire che la Shoah è di sinistra e le foibe di destra, stare da una parte e dall’altra, contrapporle, è fazioso, puerile, benaltrista e schifosamente strumentale. Sono due tragedie terribili nella loro unicità. Dobbiamo accostarle non per utilizzarle subdolamente a fini politici ma per riflettere sugli abissi dell’odio che può raggiungere l’animo umano.

La tragedia delle foibe - frutto di un abominio ideologico, etnico e nazionalista di marca comunista che causò non meno di 10mila morti - è una pagina nera che riguarda tutto il Paese. Tra le vittime di queste esecuzioni particolarmente brutali, oltre a moltissimi dirigenti e membri del Partito nazionale fascista, figurano anche ufficiali, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti come don Francesco Bonifacio, studenti come Norma Cossetto, seviziata e uccisa dopo un’agonia infinita, tutti cittadini senza tessera legati solo da radici comuni a quelle terre e persino partigiani e antifascisti autonomisti fiumani. Per non parlare dei destinatari del grande esodo che costrinse centinaia di migliaia di italiani a lasciare la casa e gli affetti per finire deportati come profughi in Italia. Una memoria di sofferenza che va tramandata per rendere omaggio a tante povere vittime e perché questo abominio della storia non si ripeta.

© RIPRODUZIONE RISERVATA