L'Editoriale
Domenica 07 Luglio 2024
Il terreno di coltura di un doppio populismo
MONDO. La Francia e, di riflesso, l’Europa intera, sono con il fiato sospeso in attesa di conoscere se il Rassemblement National di Marine Le Pen riuscirà o meno a conquistare Palazzo Matignon.
Sarebbe la prima volta che in uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea sale al potere una destra illiberale. Il Rn è infatti il partito erede del Front national di Jean-Marie Le Pen, nostalgico della Repubblica collaborazionista di Vichy, che osava assolvere anche i responsabili delle gravi colpe avute nella caccia all’ebreo. Che alla fine il giovane Bardella riesca o meno a formare un suo governo, resta il fatto che questa tornata elettorale segna un passaggio storico nella storia della Francia postbellica. È saltato uno dei pilastri su cui si è retta per ottant’anni la politica d’Oltralpe: ossia, il bando comminato alla destra che non si riconosceva nei valori repubblicani.
Data storica per la Francia, ma non meno per l’Europa. Non solo, e non tanto, perché l’esito del voto francese rischia di terremotare l’assetto dei poteri della Ue. Ma, non meno, perché stabilizza un assetto che porta a compimento un processo avviatosi con la fine dell’età della lunga crescita economica. Un processo accompagnato dalla costruzione nel Vecchio continente di una democrazia di massa. L’affermazione del Rassemblement ha tutte le caratteristiche di non essere occasionale. Parimenti, il simmetrico successo a sinistra di una forza, La France insoumise, che chiude con la tradizione del socialismo riformista, completa il quadro politico dominato da un bi-populismo. Destra e sinistra d’Oltralpe, formato new wave, sono infatti antisistema, illiberali e decise a rompere con il patrimonio di valori e istituzioni dell’Occidente democratico. Insomma, la Francia 2024 ci offre un quadro del mondo nuovo che ci (?) aspetta.
Il lungo dopoguerra che ci lasciamo alle spalle è stato caratterizzato da due processi tra loro integrati: il consolidamento di una democrazia di massa e la creazione di una società industriale che ha garantito un diffuso benessere e concrete opportunità anche a ceti che sino allora ne erano esclusi. Con la globalizzazione il quadro di riferimento è saltato. Mentre mezzo secolo di crescita economica ininterrotta aveva ridotto le distanze sociali tra le classi, da almeno un trentennio assistiamo a una stagnazione, se non ad un arretramento, dei redditi da lavoro a fronte di un vertiginoso arricchimento della ristretta cerchia degli happy few dell’economia e della finanza, o che dir si voglia, di un’élite. Da una società, rappresentabile nella forma di un ovale schiacciato, in cui la maggioranza dei cittadini si collocava nel mezzo, siamo passati ad una società a forma di piramide, al cui vertice stanno i super-privilegiati e alla base, una base sempre più larga, i perdenti della globalizzazione, penalizzati nel reddito e spogliati di reali opportunità di avanzamento sociale
Un presente deprimente e un futuro scoraggiante sono il terreno di coltura ideale di scontento, scetticismo, rabbia. È il bengodi dei partiti populisti. Essi allettano gli elettori con promesse mirabolanti, anche se irrealizzabili, se non al costo di sfasciare i conti pubblici, con i danni conseguenti che ne derivano. Maestri nel raccogliere il consenso, si rivelano apprendisti stregoni come governanti.
Il grave della situazione è che essi hanno campo libero. Le forze politiche tradizionali sono tutte a corto di idee. Non sanno fare altro che riproporre le ricette del buon tempo antico - mercatismo a destra, welfare a sinistra - che non funzionano più nel nuovo mondo globalizzato. Risultato: i populisti hanno gioco facile a conquistare il consenso, solo che, giunti al potere, si trovano di fronte ad un’alternativa bruciante. Se restano fedeli alle loro generosissime promesse elettorali (Le Pen e Mélenchon si fanno belli con un piano di spese tra i 100 e i 200 miliardi da finanziare interamente a debito) portano allo sfascio le finanze dello Stato. Se invece fanno i conti con la realtà, devono piegarsi a maneggiare le stesse ricette che avevano bollato come fallimentari. Ne paga il conto la democrazia che vede rinfocolare il disincanto e il distacco dei cittadini dalla politica.
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