Il sinodo è finito, ma resta aperto

MONDO. Per un intero mese il Sinodo ha lavorato in silenzio. Eppure quei 365 padri e madri sinodali hanno parlato molto tenendo conto del destinatario, cioè le donne e gli uomini di oggi e i grandi cambiamenti in cui siamo immersi.

Le oltre quaranta pagine della relazione finale lo confermano, una sorta di indennizzo al silenzio imposto sui lavori. Per la prima volta un Sinodo non si è concentrato su un tema solo. Per la prima volta un Sinodo non è stato l’occasione per approfondire una questione su cui dividersi tra progressisti e conservatori, ma, per la prima volta, un Sinodo è stato indicato come il criterio della ragione stessa di una Chiesa missionaria e cioè parlare a tutti e con tutte le sue voci, altrimenti si tradisce il Vangelo.

Questo Sinodo, di cui ieri è finita la prima tappa e che continuerà il prossimo anno, definisce il Pontificato di Francesco, ne è la sintesi perfetta, poiché ha avviato un processo che non si sa bene dove vada a finire, perché non ha imposto alcuna rigidità, né richiami dottrinali, né esortazioni di ordine gerarchico. Ieri mattina nella processione liturgica all’inizio della Messa a conclusione del Sinodo prima sono venuti i laici e le donne, cioè i delegati sinodali non ordinati, e poi la gerarchia. Poca cosa sicuramente, ma immagine esemplare di una Chiesa che intende andare avanti valorizzando tutti e visione strategica della missione nuova.

Oggi sono scomparsi i non-credenti, gli atei, sono spariti anche i «malcredenti» e le cosiddette «persone in ricerca», ha detto al Sinodo il vescovo di Novara e teologo mons. Franco Giulio Brambilla, e l’annuncio del Vangelo diventa più difficile. L’orizzonte si perde nella nebbia, donne e uomini indifferenti, ricerca zero, domande sul senso della vita dissolte. L’evangelizzazione in questo contesto è per lo meno malagevole. Con l’indifferente di cosa parli? E soprattutto chi ci parla? I vescovi, i preti sembrano sempre più fuori gioco, ma nel processo gli uomini e le donne non risultano ancora in partita.

Qualcuno afferma che questo sia il periodo peggiore con chiese vuote e sacramenti estinti. Ma forse sbaglia. Francesco ha colto il segno e ha spiegato che il contesto è favorevole per creare qualcosa di nuovo, senza cambiare il Vangelo. E ha adottato il Sinodo come criterio, pluralità di figure, di volti, di carismi, di missioni, di ministeri e di servizi, in grado anche di compiere scelte coraggiose. Tutti devono giocare la partita. Non è vero che il Sinodo ha chiuso porte. O forse ne ha chiusa una sola, ma tutto può cambiare nel secondo tempo: la questione dei cattolici Lgbt+, cioè tutti quelli che non si definiscono eterosessuali, nemmeno menzionati nella relazione finale, questione invece posta dall’Instrumentum laboris. Padre James Martin, gesuita americano impegnato su questo fronte e membro del Sinodo, se ne è rammaricato, perché il tema è emerso più volte, provocando opinioni diverse.

Poi c’è il resto, dal ruolo delle donne al diaconato femminile al celibato dei preti per fermarsi alle questioni più attraenti. Quasi nessuno si è accorto, ma al Cap. 15, Parte III, approvato con 310 voti e solo 36 no, della relazione finale il Sinodo chiede iniziative di «discernimento condiviso» su questioni «controverse dottrinali, pastorali ed etiche» alla luce della «Parola di Dio, insegnamento della Chiesa, riflessione teologica» promuovendo «schiettezza del confronto» e dando spazio «alla voce delle persone direttamente toccate dalle controversie», in vista della seconda sessione del Sinodo il prossimo anno. Insomma, nessun processo è stato chiuso e soprattutto, questione troppo banale, nessuno ha vinto o ha perso.

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