Il ritorno di D’Alema agita il Pd riformista. Tutti contro l’ex premier

Massimo D’Alema ha fatto il miracolo. È riuscito a mettersi tutti contro. Non è certo la prima volta che gli capita, s’intende. Ma questa ultima uscita con cui ha annunciato il suo soddisfatto ritorno al Pd in quanto ormai partito immunizzato dalla malattia del «renzismo» ha urtato i democratici nel loro insieme: tutti, ma proprio tutti si sono arrabbiati, da Fassino a Fassina, da Cuperlo alla Serracchiani, da Marcucci a Sensi, da Alfieri a Guerini, da Delrio al - finalmente - segretario del partito Enrico Letta il quale, sia pure dopo un giorno e mezzo di tentennamento, è uscito con un comunicato molto netto nei confronti di baffino di ferro: «Nessuna malattia, prego». Come dire: se rientri, siamo noi a farti un piacere, non il contrario.

In realtà, Letta sta lavorando sin dall’inizio al ritorno dei diessini che se ne andarono dal Pd nel gennaio 2017 dopo aver brindato alla sconfitta del loro stesso partito al referendum costituzionale promosso da Matteo Renzi. L’obiettivo di D’Alema, Bersani, Speranza e altri era di conquistare «intere praterie di elettorato di sinistra» scontento per la deriva moderata dall’odiatissimo Renzi (il portatore del virus, appunto).

In realtà la loro creatura politica ha più volte cambiato nome ma sempre raggranellando pochissimi voti, altro che praterie: qualche ciuffo d’erba al più. Tant’è che alle elezioni i capi di quella sinistra-sinistra bersanianamente definita «La Ditta» sono stati quasi tutti bocciati alle elezioni rimanendo tristemente fuori dei portoni di Montecitorio e di Palazzo Madama. Dimenticando questo trascurabile particolare, ossia il completo fallimento dell’operazione politica, con la consueta sicurezza di sé D’Alema ha annunciato che presto ci sarà la ricomposizione di «Articolo 1» con il Pd, neanche fosse l’incontro a Teano tra Garibaldi e Vittorio Emanuele.

La verità è che questi superstiti e reduci sono interessati soprattutto a qualche posto nelle liste elettorali alle prossime politiche. Cosa che appunto Letta è disposto a fare, ed è in programma, ma che l’annuncio di D’Alema ora rischia di rallentare e allontanare nel tempo. Perché? Perché se Baffino torna vuole comandare, anche se non ha i voti. E il suo ritorno fa somigliare il Pd al vecchio Pds: insomma, gli ex comunisti si riprendono la casa di cui si considerano unici proprietari. Ma pochi, o forse nessuno, ormai vuol concedere a D’Alema questo privilegio da notabile e vuol cambiare l’anima riformista del partito così faticosamente guadagnata. E questo non per simpatia verso Matteo Renzi - a sua volta abbandonato da parecchi sodali che non hanno condiviso l’altrettanto fallimentare avventura di Italia Viva - ma perché pensano che ormai D’Alema, Bersani e compagni abbiano fatto il loro tempo.

Altro motivo di irritazione è il siluro che, nella stessa circostanza D’Alema ha lanciato verso la candidatura di Draghi al Quirinale la cui elezione, viceversa, sembra essere l’obiettivo di Letta (purché l’elezione avvenga con una larga maggioranza). Invece D’Alema non tollera Draghi né al Quirinale né tantomeno a Palazzo Chigi. «Serve il ritorno della politica» ammonisce, pensoso.

Chissà che, come qualcuno prevede, proprio l’ostracismo dalemiano non riesca a disincagliare la candidatura di Draghi dalla palude dei veti reciproci e dei ricatti. C’è chi fa notare che, quando D’Alema nel 2015 aveva stretto lui da solo un patto con Berlusconi e l’uscente Napolitano per far eleggere Giuliano Amato alla presidenza della Repubblica, Renzi ebbe vita facile a rompergli il gioco trovando di colpo i voti per eleggere Sergio Mattarella.

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