L'Editoriale
Venerdì 11 Novembre 2022
Il ritiro russo, svolte e dubbi
Kherson è una città ucraina strategica. Da lì infatti partono i rifornimenti idrici per la Crimea. Ma è anche la porta d’accesso per un’eventuale presa di Odessa, la «perla del Mar Nero», sistema di sette porti dai quali passa l’80% dell’export nazionale (grano per 400 milioni di persone dal Nord Africa all’Asia, ma anche prodotti minerari).
Chi controlla Odessa non ha solo il dominio della ricchezza del Paese invaso ma acquisisce pure un potere di ricatto su molti Stati del Mediterraneo. Per questo ha destato sorpresa il ritiro delle truppe del Cremlino da Kherson: era nell’aria ma è avvenuto in modo improvviso e veloce. La città è capoluogo di una della quattro regioni annesse a settembre alla Russia dopo i referendum farsa. Kiev ha dubbi sulle reali intenzioni dell’esercito di Mosca. La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha lanciato un messaggio esplicito: «Non abbiamo mai rifiutato di condurre negoziati con l’Ucraina e siamo ancora pronti, tenendo in considerazione la realtà emergente». Il presidente Volodymyr Zelensky martedì scorso, rompendo un tabù degli ultimi mesi, si è detto pronto a trattare con Vladimir Putin ed ha lanciato un appello alla comunità internazionale affinché «costringa la Russia a veri colloqui di pace». Confermando però alcune condizioni irrinunciabili: ritiro russo da tutti i territori occupati, riparazioni per i danni causati dall’invasione e processi per i crimini di guerra.
È uno sparigliamento delle posizioni, condizionato anche dal voto di medio termine negli Usa: Trump non ha sfondato, ed è una cattiva notizia per il Cremlino, ma Biden è più debole e Kiev teme una riduzione degli aiuti militari. I media e gli esperti di geopolitica hanno definito il ritiro russo da Kherson «una svolta». Ci sono le premesse per cominciare a discutere almeno un cessate il fuoco. Ma restano le incertezze. Le brigate ucraine tengono testa agli invasori ovunque. Riescono a farlo grazie alla determinazione e alla motivazione dei soldati e agli strumenti forniti dalla Nato: armi, munizioni e informazioni. Il sospetto del Paese invaso è che i russi vogliano rifiatare per riorganizzare l’esercito e scatenare una nuova offensiva.
Il Cremlino ha mandato in prima linea almeno 50mila dei riservisti mobilitati a settembre. Altri 150mila sono stati trasferiti in tre centri di addestramento in prossimità delle frontiere ucraine, uno dei quali in Bielorussia. Se non ci sarà una tregua, queste truppe andranno all’attacco. Probabilmente nel prossimo mese, quando il ghiaccio avrà compattato le pianure fangose. La manovra potrebbe avvenire su tre direttrici lontane l’una dall’altra, così da obbligare gli ucraini a dividere le loro unità meccanizzate e gestire una logistica complessa. Mosca sta allestendo una massa d’urto pari all’onda d’assalto scatenata lo scorso 24 febbraio. Kiev può riuscire a fermarla ma la reazione di Putin a questa evenienza è imprevedibile: resta sul campo il possibile ricorso a ordigni tattici nucleari, l’arma della disperazione. Per evitare questa tragica opzione, la Casa Bianca ha aperto un canale di comunicazione con il Cremlino, affidato ai due consiglieri per la Sicurezza: l’americano Jake Sullivan e il russo Nikolaj Patrushev. Ci sono poi una linea diretta creata dai vertici militari e le delegazioni che discutono il rinnovo degli accordi« Start», per scongiurare l’escalation atomica.
Gli Usa hanno abbandonato l’idea di rovesciare l’autocrazia di Putin per non destabilizzare la Russia in questo momento: potrebbe diventare facile preda della Cina. Intanto, mentre Kiev riceve sostegno militari da Usa ed Europa, Mosca non ha solo comprato 2.800 droni esplosivi kamikaze «Shahid» dall’Iran, che hanno provocato già decine di vittime fra i civili, ma anche missili di nuova generazione capaci di colpire fino a 2.400 km di distanza. La campagna di distruzione delle infrastrutture per l’energia e per l’acqua ha dato risultati: 4,5 milioni di ucraini ne sono totalmente privi, per 7 milioni è razionata. A Leopoli sono già arrivati sfollati da zone invivibili con il freddo che avanza. E poi c’è chi dice che la distinzione «aggressori-aggrediti» è banale e non aiuta a capire: ma non sono parole, bensì condizioni di vita (e di morte) opposte.
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