Il riarmo dell’Unione: c’è difesa e difesa

MONDO. Il mese scorso la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in risposta alle crescenti tensioni internazionali (in primis la guerra in Ucraina e il «disimpegno» della nuova amministrazione americana), ha formulato una proposta finalizzata a rafforzare la capacità di difesa dell’Europa.

L’iniziativa ha suscitato non poche reazioni e provocato distinguo importanti tra le forze politiche del nostro Paese, sia di governo sia di opposizione. Come spesso avviene nei passaggi difficili della Storia, il mondo tende a dividersi tra «interventisti» e «neutralisti» con argomentazioni che non convincono fino in fondo e che, soprattutto, polarizzano il dibattito affossando gli argomenti a favore di una posizione più equilibrata. E questo, peraltro, senza entrare nel merito della proposta della presidente, che attribuisce il grosso dell’onere agli Stati nazionali e ai relativi debiti pubblici, come se i livelli di partenza fossero i medesimi e senza che alla fine si possa parlare di un effettivo percorso verso una comune difesa europea.

Che cos’è «ReArm Europe»

Ora, che la proposta fosse partita con il piede sbagliato lo si evince anche dai nomi ad essa attribuita. Il piano è stato inizialmente denominato «ReArm Europe»; successivamente, è cambiato in «Readiness 2030». Sulla prima scelta, il termine, per quanto molto chiaro, indicava più un percorso di offesa che di difesa. Sulla seconda, meno chiarezza («Readiness» vuol dire effettivamente «prontezza» ma pochi tendono a coglierlo in tal senso) e, soprattutto, il riferimento al 2030 (cioè tra 5 anni!) proprio non dà l’idea di una risposta pronta. In ogni caso, senza voler ironizzare su un tema così delicato e con una guerra in corso da oltre tre anni nel cuore dell’Europa con l’immenso sacrificio umano conseguente, la questione è sul tavolo tanto dell’Europa quanto dei singoli Stati.

Urgente e importante non perdere di vista altri obiettivi strategici, che non sono alternativi al bisogno di sicurezza ma non sono nemmeno avulsi dal medesimo e che concorrerebbero a un pacchetto «difesa» non percepito come sola corsa al riarmo

L’idea che l’Europa non si regga solo sulla moneta unica e sul mercato ma richieda un salto in avanti se vuol competere con la Russia, la nuova America, la Cina e l’India, è del tutto condivisibile ed urgente è il bisogno di un suo rafforzamento. E ciò anche con riferimento alle modalità di tutela dei confini, in chiave difensiva e non offensiva. Tuttavia, è altrettanto urgente e importante non perdere di vista altri obiettivi strategici, che non sono alternativi al bisogno di sicurezza ma non sono nemmeno avulsi dal medesimo e che concorrerebbero a un pacchetto «difesa» non percepito come sola corsa al riarmo.

Si può lavorare al riguardo su molti fronti. Provo a sottolinearne tre. Il primo attiene la necessità per l’Europa di diventare un Continente indipendente sotto il profilo energetico, con i singoli Stati autonomi almeno fino a una certa soglia, lasciando il resto allo scambio interno ed esterno ma su valori contenuti e senza dimenticare la sostenibilità. Stime recenti collocano questo obiettivo non prima del 2040. Pensarci ora è già tardi ma occorre scegliere questa come assoluta priorità.

Il presidio delle tecnologie strategiche

Il secondo fronte riguarda il presidio delle tecnologie strategiche. Ho ascoltato di recente l’ex ministro Roberto Cingolani, ora amministratore delegato di «Leonardo», sottolineare come sia più strategico ed efficace un sistema sensoristico avanzato di poche migliaia di euro di un carro armato dal costo miliardario. La polemica su Starlink dovrebbe far riflettere sui ritardi dell’Europa su questo fronte. Mentre gli Stati Uniti e la Cina collocavano migliaia di satelliti sopra le teste di tutti, l’Europa arrancava, malgrado un’industria aerospaziale di primo ordine. Quindi, ricerca applicata e nuove tecnologie.

Il terzo fronte attiene all’industria, a quel mondo sempre pronto a catturare la pervasività delle nuove tecnologie e sempre più conteso dalle politiche delle super potenze e, in parte, spiegazione degli stessi dazi americani. I nomi scelti per la nuova strategia europea proprio convincono poco. Se vogliamo costruire un continente forte e pacifico dobbiamo forse pensare all’affetto genitoriale nei confronti dei bambini, al proteggere piuttosto che all’offendere, al crescere rendendo autonomi piuttosto che arricchire la sola muscolatura. Un «Protect Europe», ad esempio, che comprenda l’indipendenza energetica, il presidio delle tecnologie strategiche, la forza nella ricerca e la leadership nelle industrie «core», dalla chimica all’elettronica, alla salute (dai dispositivi ai farmaci, dalla qualità della vita ai sistemi di welfare). Una correzione in tal senso ridurrebbe le distanze politiche e scalderebbe un po’ di più i cuori dei cittadini europei. Armi ed equipaggiamenti sarebbero a quel punto parte integrante di un «sistema di protezione» nato come tutela della società, come lo sono le nostre forze dell’ordine, riconosciute tra le più preparate ed efficaci d’Europa.

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