Il Recovery
è pronto
Malumore
dei partiti

Il rinvio ad oggi del Consiglio dei ministri rivela i malumori che circolano nei ministeri e nei partiti sul Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) necessario per accedere ai 191 miliardi di fondi europei del Next Generation Eu cui vanno aggiunti altri 30 miliardi di deficit interno. Malumori dovuti sia ai contenuti del piano che alle procedure decise dal Governo per vararlo. E si capisce perché: il Pnrr è saldamente nelle mani di Mario Draghi e del ministro del Tesoro Daniele Franco cui si aggiungono pochissimi altri ministri tecnici: Cingolani (Transizione Ecologica), Colao (Innovazione Tecnologica), Giovannini (Infrastrutture). Unico politico (molto in sintonia con Draghi) il bocconiano leghista Giorgetti allo Sviluppo economico.

Ma il vero «cervello» dell’operazione da 221 miliardi in sei anni sta a via XX Settembre, sede del Mef. Tutti gli altri, ministri e segretari di partito, il Pnrr lo hanno letto sui giornali. Quanto al Parlamento, è previsto che discuta il testo e lo voti la prossima settimana in 48 ore, praticamente «a scatola chiusa» come protesta, dall’opposizione, Giorgia Meloni. Dopodiché il Governo varerà definitivamente il Piano e lo manderà a Bruxelles entro il termine tassativo del 30 aprile, condizione indispensabile per far arrivare i fondi del primo anticipo: per l’Italia 21 miliardi.

Insomma su questa maxi operazione, che è l’ ultima occasione per rilanciare lo sviluppo e frenare il declino dell’Italia, i politici hanno poca voce in capitolo. Questo naturalmente non piace: non solo alla Lega ma anche al Pd e ai renziani, mentre i grillini sembrano più distaccati, forse distratti dall’addio alla piattaforma Rousseau di Casaleggio jr e al pasticcio del video di Beppe Grillo. Quanto a Di Maio è più che altro impegnato a salire e scendere dagli aerei del ministero degli Esteri. Salvini, già reduce dall’astensione sul decreto «Riaperture», ha per esempio scoperto che la sua creatura previdenziale, Quota 100, spirerà alla fine dell’anno e non sarà prorogata. Forza Italia, poi, ieri esultava per l’estensione del Superbonus al 110% al 2023 ma ha appreso da Palazzo Chigi che al massimo si arriverà all’anno prossimo. Enrico Letta fa sapere che vorrebbe qualche vantaggio in più per giovani, donne e Mezzogiorno, ma, più che un ultimatum, sembra un auspicio.

Il piano dunque è bell’e fatto. Punta tutto su quattro riforme (Pubblica amministrazione, Giustizia, Concorrenza e Semplificazione), sulla transizione green (energia e mobilità soprattutto), sulla digitalizzazione, sui lavori pubblici e le infrastrutture, e dà un grande ruolo alle aziende pubbliche: Leonardo-Finmeccanica, Ferrovie, Cassa Depositi e Prestiti, Snam, Enel, più Tim e WeBuild.

Di tutto ciò, i partiti poco hanno discusso. Il Piano Draghi-Franco è molto diverso da quello Conte-Gualtieri e risponde di più ad un imperativo della Commissione: i soldi arriveranno solo a fronte di progetti precisi fino al dettaglio, non a vaghe promesse, e anzi se gli obiettivi non verranno raggiunti nei modi e nei tempi previsti, la Commissione potrà chiedere la restituzione delle somme.

I partiti in questi ultimi giorni hanno ricominciato a farsi vivi per parlare della «cabina di regia» - sui cui poteri verrà varato presto un decreto - in una replica di quanto accadde ai tempi di Conte: si litigò così tanto su chi dovesse prendere le decisioni che il piano non vide mai veramente la luce e Draghi quando è arrivato ha affidato ai tecnici di sua fiducia, di fatto, una completa riscrittura di quello che è stato considerato non più di un brogliaccio. Ora ai politici viene chiesto solo di mettere il timbro. Ma potranno, con questi tempi così stretti, mettere i bastoni tra le ruote, per esempio minacciando di astenersi in Parlamento? Difficile. Il rischio di vedere sfumare i primi 21 miliardi è troppo forte, e tutti lo sanno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA