Il rapporto sostenibile tra Lombardia e Germania

MONDO. Se l’economia italiana è strettamente legata a quella della Germania, che è il nostro primo partner commerciale, l’economia lombarda - nello specifico - lo è ancora di più.

Le relazioni commerciali di questa regione con la prima potenza economica europea, misurabili dalla somma di esportazioni e importazioni, lo scorso anno hanno raggiunto il valore di 53,8 miliardi di euro, un livello più che doppio rispetto a quello di altre regioni pur internazionalizzate come Veneto ed Emilia Romagna. Dunque la Lombardia da sola, secondo la Camera di Commercio Italo-Germanica, vale quasi un terzo dell’interscambio totale tra Roma e Berlino che ammonta a 164,3 miliardi. Una relazione speciale che, per quanto radicata nel tempo, attraversa oggi una fase delicata. Lo scorso anno, intendiamoci, l’interscambio ha segnato un calo davvero lieve (meno 2,5%) rispetto al 2022.

Il punto è un altro. Come ha notato di recente l’economista dell’Università Bocconi Fabrizio Onida, nel 2023 quella tedesca è stata l’unica grande economia del continente a registrare una recessione, e «la crescita prevista dal Fondo monetario internazionale per la Germania nei prossimi cinque anni è proiettata inferiore a quella non solo degli Stati Uniti ma anche di Regno Unito, Francia e Spagna». Se si parla di Berlino come della «nuova malata d’Europa», le spiegazioni possibili sono varie: dal calo degli investimenti privati nel settore tecnologico a una P. A. che perde efficienza. Soprattutto, però, occorrerebbe riflettere su una difficoltà sistemica della locomotiva tedesca. Torna utile in tal senso il ragionamento che Mario Draghi, ex premier italiano e già numero uno della Bce, ha condiviso lo scorso novembre con alcuni manager internazionali. «È finito il modello dell’Ue - ha detto - che faceva ampio affidamento sugli Stati Uniti per la difesa, sulla Cina per il commercio e sulla Russia per l’energia a buon mercato». Draghi allora parlava dell’Europa, ma è indubbio che avesse in mente anche il suo motore economico, cioè la Germania, che proprio su un simile «modello» ha fondato la propria crescita negli ultimi decenni.

Alcuni settori chiave, nel nostro Paese, non potranno che risentire di tale rallentamento. L’interscambio annuo fra Italia e Germania, nel solo settore chimico-farmaceutico, vale 25,8 miliardi di euro; seguono mezzi di trasporto (25,76 miliardi), macchinari (22,35 miliardi), siderurgia, elettrotecnica ed elettronica, alimentare, gomma e plastica. «Stiamo attraversando una fase di rimodulazione dei nostri sistemi produttivi - ha detto Monica Poggio, presidente della Camera di Commercio Italo-Germanica .- La priorità per Italia e Germania sarà portare a termine trasformazioni decisive per coniugare sostenibilità, innovazione e competitività». Obiettivo condivisibile. Senza dimenticare che, soprattutto nell’industria manifatturiera, una piena «sostenibilità» - ambientale e sociale - passa per il ripensamento dei rapporti fra tutto il blocco europeo e la concorrenza cinese. A questo proposito, quale strada sarà bene percorrere? Proprio in questi giorni sembrano confrontarsi due visioni ben distanti tra loro; per semplificare, potremmo parlare della sfida tra una «dottrina Renault» e una «dottrina Mercedes». L’a.d. di Renault, l’italiano Luca de Meo, ha chiesto infatti a Bruxelles di smetterla con l’ossessione per una regolamentazione della tecnologia calata dall’alto e per giunta associata a multe salate in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi. Per fronteggiare l’arrivo di vetture «made in China» a basso costo occorre piuttosto, secondo De Meo, ipotizzare forme di protezione dell’industria automotive europea, che da sola vale il 7% di tutta la manifattura del continente, ed elaborare una strategia comune di sostegno al comparto.

Ola Källenius, ceo di Mercedes, ha sollecitato invece Bruxelles a ridurre ulteriormente dazi e tariffe sulle auto elettriche cinesi. È solo grazie alla concorrenza nel libero mercato, è il suo ragionamento, che le aziende europee potranno rafforzarsi. Dietro questa posizione, secondo il «Financial Times», si nasconderebbe però il timore tedesco che un irrigidimento europeo verso Pechino - per ottenere parità di condizioni di mercato - possa scatenare ritorsioni cinesi, soprattutto verso le aziende tedesche che si sono impiantate stabilmente in Cina. Quale delle due «dottrine» è davvero nell’interesse delle aziende e dei lavoratori italiani, di una relazione sostenibile tra Italia e Germania, e in definitiva di tutta la filiera industriale europea?

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