Il rapporto Draghi e le nostre diversità

MONDO. Una constatazione lapidaria, e solo in apparenza semplice, racchiude la storia della nostra Europa, ideale prima ancora che economica: «Siamo diversi». E qui sta anche il suo futuro possibile.

L’ex presidente della Banca centrale europea ed ex premier Mario Draghi, ospite giovedì 19 settembre al parco scientifico Kilometro Rosso, non fa sconti sulla gravità della situazione. La ritirata dell’industria non è un’ipotesi teorica. La perdita di terreno rispetto a Cina e Stati Uniti nemmeno. Ma le strade per invertire la rotta ci sono e l’economista Draghi le ha tracciate nel Rapporto sulla competitività presentato una decina di giorni fa e fatto proprio sulla carta dalla Commissione europea, von der Leyen bis, nelle lettere d’ingaggio ai commissari freschi di nomina in questi giorni.

La ritirata dell’industria non è un’ipotesi teorica. La perdita di terreno rispetto a Cina e Stati Uniti nemmeno. Ma le strade per invertire la rotta ci sono

Passiamole in rassegna alcune differenze europee. Da noi l’innovazione procede piano ed è rimasta legata in gran parte all’industria automobilistica, come accadeva negli Stati Uniti vent’anni fa. Al contrario, al di là dell’Oceano a guidare la ricerca e lo sviluppo oggi è l’hi-tech, l’alta tecnologia, da noi pressoché non pervenuta. Un dettaglio in proposito: al netto dell’hi-tech, che ha livelli molto più alti, la nostra produttività e quella Usa sono paragonabili. Strade nuove, però, non si aprono a costo zero e mentre negli Stati Uniti l’80% degli investimenti sono privati e il 20% pubblici, in Europa il rapporto è capovolto. Le imprese americane, tra investimenti remunerativi e filantropia, spendono 280 miliardi in più rispetto alle imprese europee. Con il consueto garbo, Draghi sintetizza con estrema chiarezza: «Dobbiamo spendere di più in ricerca e sviluppo, deve spendere di più l’Europa e devono spendere di più i privati».

Un popolo di risparmiatori

Dove si trovano i soldi? Noi, e in questo caso in Italia ancor più che nel resto d’Europa, siamo un popolo di risparmiatori. Si tratta di mettere in circolo il risparmio in termini di investimenti in un vero mercato unico dei capitali, argomenta Draghi, mentre cerca di fare chiarezza sul debito comune su cui tanto ci si è già stracciati le vesti negli ultimi dieci giorni. Tanto per cominciare un fabbisogno di 7-800 miliardi all’anno non è una cifra fuori dalla portata dell’Unione visto che è il 5% del Prodotto interno europeo. Inoltre, corrisponde a impegni già presi, su cui la volontà politica si è già espressa, e non a investimenti nuovi. Il debito comune è un aspetto importante della strada da percorrere ma, sottolinea l’ex premier, strumentale agli obiettivi da raggiungere.

Da noi l’innovazione procede piano ed è rimasta legata in gran parte all’industria automobilistica, come accadeva negli Stati Uniti vent’anni fa. Al contrario, al di là dell’Oceano a guidare la ricerca e lo sviluppo oggi è l’hi-tech, l’alta tecnologia, da noi pressoché non pervenuta

Fra questi, politiche energetiche e materie prime occupano un posto di primo piano. Il problema non è la decarbonizzazione, che anzi può essere fonte di crescita, ma il disallineamento degli interventi. E se è vero che sul secondo punto dipendiamo ampiamente dalla Cina, che sta allargando il controllo sulle materie prime anche in Africa, è anche vero che dal principio di solidarietà che ha accompagnato la storia dell’Europa unita deriva una chance: stringere accordi con i Paesi ricchi di materie prime guidati da una visione diversa, solidale appunto, aiutandoli ad esempio a decarbonizzare.

Le diversità europee

Capire le diversità europee aiuta a tenersi alla larga anche dai soliti facili populismi, ad esempio di chi è sempre pronto a chiedere di seguire la strada, in apparenza a portata di mano, dei dazi per difendersi dalla Cina, e a volte anche dagli Stati Uniti, cui si guarda come paradigma ma fino ad un certo punto. Il fatto è, spiega l’economista Draghi, che il mercato europeo è il più aperto: la nostra ricchezza dipende per oltre la metà dal commercio mondiale, contro il 37% degli Usa e il 27% della Cina. In linea teorica, quindi, potrebbe essere giusto, ad esempio, imporre dazi su merci straniere che beneficiano di aiuti di Stato ma sarebbero di più i vantaggi o i contraccolpi che si abbatterebbero su un’economia come la nostra che è così esposta agli scambi internazionali?

La globalizzazione in frantumi

Certo, sapere che la globalizzazione è andata in frantumi perché altri non hanno rispettato le regole date sa di beffa. Ma suona altrettanto stonato pensare di rincorrere modelli, e scorrettezze, che non ci appartengono. Perché, si diceva, la differenza europea è ideale prima ancora che economica. Abbiamo una storia di welfare di cui andare orgogliosi e che potremo difendere generando più ricchezza per tutti. Le diseguaglianze si stanno allargando anche da noi, ma il sistema europeo resta più equo, con una migliore distribuzione del reddito.

Un sistema più equo

Pur nella gravità della situazione, Draghi resta comunque ottimista ed è da mandare bene a memoria il suo appello finale alle «democrazie vitali e inclusive» del nostro continente cui è affidato il compito di tradurre gli scenari in scelte politiche concrete e azioni. Il tema adesso è decidere appunto cosa fare e muoversi con velocità: in caso contrario, «continueremo a decrescere felicemente e a diventare sempre più poveri felicemente», conclude Draghi con un filo d’amara ironia. Il sogno europeo non può finire così: a una politica che sappia abbandonare l’ipertrofia regolatoria degli ultimi vent’anni per concentrarsi invece su ciò che è davvero strategico, spetta il compito di continuare a farlo vivere questo sogno. In meglio.

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