Il pratone sovranista e la realtà del bilancio

ITALIA. Matteo Salvini aveva bisogno di venire fra i suoi, nel «buen retiro» di Pontida, per confidarsi dei tormenti di questo periodo e ricevere solidarietà. Troppi guai e talora sulla graticola.

C’era la necessità di dirottare la comunicazione dal Palazzo alla sua gente, di prendersi una pausa dall’essere ministro dei treni in tilt e vice premier di un governo alle prese con una legge di bilancio che divide la maggioranza. Il tradizionale rito della Lega è riuscito in quello che è stata la tribuna offerta alla destra sovranista europea: l’anno scorso Marine Le Pen, quest’anno il premier ungherese Orban e i suoi Patrioti di estrema destra, un club che riunisce personaggi anche inquietanti, ma pur sempre la terza formazione dell’Europarlamento. Bagno di folla e pienone solo sul finire, una scenografia che già da anni ha mutato pelle lasciandosi alle spalle il ruspantismo alla Bossi e una certa nostalgia. Il punto essenziale che ha fatto da cornice è la corale ed esibita «difesa di popolo» di Salvini imputato al processo Open Arms, alla vigilia dell’arringa difensiva dopo la richiesta di condanna per l’allora ministro dell’Interno. «Difendere i confini non è reato» è stato, come da copione, lo slogan che tutti hanno ripetuto in premessa e in conclusione: dallo stato maggiore della Lega agli ospiti internazionali.

Il punto essenziale che ha fatto da cornice è la corale ed esibita «difesa di popolo» di Salvini imputato al processo Open Arms, alla vigilia dell’arringa difensiva dopo la richiesta di condanna per l’allora ministro dell’Interno

C’è chi s’è spinto fuori misura come Orban, che ha dato voce a un sentimento diffuso nel pratone: «Quella contro Salvini è una vergogna, della sinistra e di tutta l’Europa». L’unico distinguo è venuto da Zaia quando ha detto di avere fiducia nella magistratura, riferendosi ai giudici che dovranno decidere. Quanto all’interessato, ha liquidato il tutto con poche parole: lui non scappa, non è preoccupato e se dovesse succedere il peggio «andrei in carcere a testa alta». Il leader leghista è stato più contenuto del solito: venti minuti senza particolari fiammate, più mozione degli affetti che altro. Del resto Pontida, pur avendo segnato le tappe politiche cruciali degli ex lumbard, è prima di tutto una zona franca sentimentale. Salvini ha eluso i temi del momento, o comunque li ha ridimensionati, sintetizzando in modo ecumenico: «Il governo è compatto, è un governo di amici prima ancora di alleati. Ovviamente ogni tanto discutiamo».

Il solo aspetto, più sorvolato che approfondito, la questione tasse: un tabù per la destra, che ha sempre promesso di non mettere le mani nelle tasche degli italiani. «Se qualcuno deve pagare qualcosa in più, paghino i banchieri e non gli operai», ha riassunto Salvini.

In realtà il dissenso con Tajani rimane, fra cittadinanza e natura dell’estrema destra europea. E con Giorgia Meloni è una continua prova di forza. Del resto schierare la destra radicale europea al completo è un gesto competitivo, non amichevole, verso la premier più o meno incamminata verso le istituzioni europee e con la designazione del ministro Fitto a vice presidente esecutivo, partita ancora aperta. Il solo aspetto, più sorvolato che approfondito, la questione tasse: un tabù per la destra, che ha sempre promesso di non mettere le mani nelle tasche degli italiani. «Se qualcuno deve pagare qualcosa in più, paghino i banchieri e non gli operai», ha riassunto Salvini.

Le parole di Giorgetti

Allusivo, senza andare oltre, pure il ministro Giorgetti, che ha cercato di rassicurare: «Tranquilli e sereni. So distinguere chi fa sacrifici e chi li può fare». Il mattatore ci sembra sia stato Orban, il teorico della «democrazia illiberale». Abile tribuno demagogo, ogni sua frase cadenzata per via dell’interprete è stata accompagnata dall’applauso. Aggressivo nei toni e nella sostanza: la sua Ungheria è un Eldorado, l’Ue una sciagura. Di più: ha minacciato di portare davanti agli uffici di Bruxelles gli immigrati irregolari che giungono nel suo Paese. Degli altri ospiti il più intransigente è stato il rappresentante di Vox, la destra radicale spagnola per la quale a suo tempo si era spesa Meloni. Sia lui sia l’olandese Wilders, forse ignari della memoria storica italiana, sono scivolati su una parola tristemente nota: «Vinceremo». Applausi anche per il generale Vannacci, fra una poesia e il ricordo della battaglia di Lepanto.

L’autonomia regionale

L’altra questione centrale, l’autonomia regionale differenziata che comincia a essere messa terra con il dibattito fra il governo e quattro Regioni del Nord. Ne hanno parlato in tono discorsivo e di spiegazione soprattutto il ministro Calderoli, il padre della riforma, e i governatori Fontana e Zaia. Il messaggio rivolto agli organizzatori del referendum contro è che indietro non si torna, che questa autonomia non spacca il Paese e che chi sostiene tale tesi non ha finora spiegato il perché. Per i colonnelli leghisti si è nell’alveo della Costituzione e si tratta di un’equa divisione del benessere. L’enfasi su questo tema si spiega con la battaglia di sempre, gestita dai colonnelli della prima ora, ma anche con un bilanciamento rispetto al salvinismo che ha deviato dalla casa paterna: un modo per salvaguardare e rilanciare l’eredità nordista in sofferenza.

Il raduno sovranista dice due cose. La prima: questa Lega, stando agli umori dei militanti osservati al pratone non necessariamente rappresentativi di tutto l’elettorato, intende correre verso l’ignoto, cioè verso un’avventura che non si pone confini a destra. La seconda: la realtà della manovra di bilancio, tuttora protetta da un linguaggio criptico, potrebbe rivelarsi non indolore per le fortune e le aspettative di Salvini e della destra di governo.

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