Il Papa, il presepe
«mirabile segno»

Domenica primo dicembre Papa Francesco si è recato al santuario di Greccio, vicino Rieti, dove San Francesco di Assisi nel 1223 realizzò il primo presepe vivente della storia. Una forte suggestione emotiva e intellettuale, quella ispirata dal Pontefice, che nella grotta del santuario ha firmato la lettera apostolica «Admirabile signum», restituendo alla storiografia del presepe la propria forza civica e culturale, oltreché religiosa, definendolo «mirabile segno» da portare in tutte le case, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze.

Contro ogni retorica utilitaristica, contro ogni tentazione d’idolatria separatista, contro ogni tentativo di omologazione classista, il Papa ci ha ricordato, con la potenza evangelica della semplicità, che il presepe richiama piuttosto «la tenerezza di Dio» e che fu l’evangelista Luca a dire che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio».

Quello iniettato nella coscienza collettiva del mondo dal santuario di Greccio è un piccolo, prodigioso granello di misericordia. Una sferzata che ci obbliga ad un respiro più pieno; un respiro la cui purezza ci disturba perché ci sradica dai nostri pregiudizi e privilegi, mettendoci di fronte alla responsabilità individuale, misericordiosa appunto, verso l’infinito che è sempre altro da noi e molto più di noi. Con grazia accogliente e determinata il Santo Padre ci ha messo ancora una volta di fronte allo specchio, in tempi in cui la ricorrenza del Natale sembra andare assumendo sempre più le sembianze di un «party pagano» pieno di addobbi e sovrastrutture ideologiche, luci artificiali e acquisti sovrabbondanti sotto i cui pacchi luccicanti mettersi per qualche istante al riparo dalla vita e dai pensieri.

Basti frequentare, in questi giorni convulsi e insensati, i grandi centri commerciali che hanno ormai trasformato l’intero Occidente in un magma insapore in cui tutto si ripete, si duplica, si assomiglia talmente tanto da annullare inesorabilmente l’imperfezione salvifica di ogni fisionomia individuale. Viviamo tutti, chi più chi meno, cotti a fuoco lento dentro una contraffazione estetica che annulla i difetti costruendo sorrisi e tappezzerie di facciata, abeti natalizi di plastica già decorati a inizio novembre e sentimenti natalizi anch’essi di plastica che s’indignano farisaicamente contro l’inumanità dell’oggi. Purché l’indignazione resti confinata sulla soglia del pianerottolo condominiale, nella retorica buonista di parole e discorsi che ci garantiscano di lasciare tutto e tutti fuori dalle nostre casette tirate a lucido, senza più il desiderio di accogliere impronte altrui.

Certo, resta pur sempre e per fortuna la placenta famigliare, purché anche in questo caso, come ci ricorda l’immenso Eduardo nella sua commedia tragicomica «Natale in casa Cupiello», l’opportunità dello stare insieme in famiglia offerta dal Natale non finisca col rappresentare un incontro «obbligato» durante il quale fare riaffiorare gelosie, malesseri e vecchi rancori, acuendo condizioni individuali di stress e di disagio oggi sempre più comuni sotto la «monarchia digitale» della «post modernità».

Il Natale è una fiamma improvvisa e luminosissima. Tenerla viva sta a noi. Sta a noi cogliere l’occasione per un profondo percorso interiore che ci porti a vivere più autenticamente. Ad avere relazioni più intense e vere. Ad eliminare le maschere che portiamo sempre indosso, ciascuna appropriata alla circostanza e alla convenienza del momento. Ecco allora che la rabbia e lo smarrimento esistenziale che talvolta ci colpiscono a tradimento, anche quando agli occhi altrui le nostre vite sembrano galoppare perfettamente, non rappresentano altro che il desiderio di un momento di risveglio interiore e di riscoperta del significato abissale del Natale. L’estasi che celebra la nascita della scintilla divina e imperfetta che è in ognuno di noi, dentro una capanna diroccata di Betlemme.

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