L'Editoriale
Lunedì 04 Febbraio 2019
Il paese resta sovrano
se salva le aziende
L’ Italia è il primo Paese in Europa in recessione tecnica. In Germania il pil è calato all’1% a fronte di un 1,8% pronosticato. Una tendenza al ribasso che preoccupa Berlino. Il ministro dell’Economia Peter Altmaier sa di guidare la quarta potenza industriale del mondo e quindi rilancia con un piano industriale sino al 2030. Prima preoccupazione: le piccole e medie imprese tedesche sono troppo frammentate e di ridotte dimensioni per far fronte all’accresciuta concorrenza internazionale. Anche quando di successo finiscono per essere assorbite dai grandi gruppi. Un transfer di sapere tecnologico all’estero che impoverisce il Paese. Di recente Kuka, azienda leader nei robot industriali e nell’ automazione, è stata acquisita dai cinesi. Il risultato è che il cervello dell’azienda sta prendendo la via della seta direzione Pechino. Va quindi fatto un piano a lungo termine per rendere convenienti le fusioni, agevolare le aggregazioni a livello nazionale o europeo, offrire incentivi fiscali, restringere il diritto di concorrenza contro le azioni predatorie dei gruppi esteri.
Gli italiani non hanno i grandi gruppi come Siemens, Basf, Volkswagen ecc. ma una cosa in comune con i tedeschi l’hanno e sono appunto le piccole e medie aziende. Non a caso l’Italia è la seconda manifattura d’Europa. Con una diffusione capillare sul territorio pari alla frammentazione di impresa. Sono 4,2 milioni le micro imprese presenti principalmente nel Nord Italia, quei 102mila Kmq che producono circa il 60% del pil nazionale e danno al Paese lo status di nazione industriale. E sono, proprio come in Germania, esposte alle insidie della globalizzazione come confermano i decessi di 500 mila aziende scomparse in questi anni sotto il peso di una concorrenza insostenibile per la loro struttura.
Questa è la sfida che in Europa ormai tutti conoscono ma che sembra sconosciuta al governo italiano. All’incontro all’Assolombarda di Milano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha riassunto la situazione con queste parole: «Dobbiamo guardare al 2019 e dobbiamo guardare con entusiasmo alla crescita economica». Laddove «entusiasmo» sembra essere la parola chiave. Il ministro dell’Economia invita a «non drammatizzare» mentre il parigrado di Altmaier ovvero il ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio giura che saranno i 13 miliardi del reddito di cittadinanza e dei pensionamenti quota 100 a salvare il Paese dalla recessione. Gli esperti economici ipotizzano, nel migliore dei casi, un rilancio dello 0,2% del pil.
C’è evidentemente qualcosa che non torna ed è proprio il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi a mettere il dito nella piaga. Rivolto al capo dell’esecutivo dice esplicitamente: «Quello che chiediamo è di guidare il governo non sulla facile strada del dividendo elettorale ma su quella di un progetto di medio e lungo termine». Parole scontate per un Paese industriale. La questione che si pone è di stabilire se l’ Italia lo sia. Vi è una parte consistente dell’opinione pubblica italiana che ritiene lo sviluppo industriale una battaglia di retroguardia di fronte al miraggio della decrescita. Non è la maggioranza ma può contare sulla ignavia e il disinteresse dei settori improduttivi della società italiana. Esattamente quelli che non hanno idea di cosa sia il lavoro industriale e puntano alla supplenza assistenziale dello Stato. Quanti siano non lo sappiamo con certezza ma è certo che in questo momento pesano in modo determinante sugli assetti di governo. Salvare le aziende e metterle in condizione di lavorare come le loro concorrenti tedesche non è più solo una questione economica ma è l’unico strumento per permettere al Paese di mantenere la sua sovranità.
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