Il nuovo Pd, se tramonta la vocazione maggioritaria

Politica. A Giancarlo Pajetta, dirigente comunista di lungo corso, sfuggì una battuta sul conto del suo segretario di partito. Disse che il compagno Berlinguer si era iscritto direttamente al comitato centrale. Le sue parole erano sottilmente ambigue. Erano apparentemente il riconoscimento della predestinazione di Berlinguer a divenire un grande leader.

Al contempo, era difficile non cogliere la maliziosa sottolineatura che a Enrico era stata risparmiata la solita trafila di incombenze che i comuni militanti dovevano sobbarcarsi, prima di assumere cariche di vertice. Implicitamente, comunque, era un modo per sottolineare che anche nel partito comunista restava valida la regola che il «cursus honorum» aveva tempi lunghi e molte prove da superare.

La Schlein è riuscita a fare ben di più del mitico Berlinguer. Non ha avuto bisogno di affrontare nessun passaggio intermedio. È balzata direttamente alla segreteria. Lei che nel 2013 aveva sbattuto la porta del partito perché non poteva sopportare lo sgarro dei 101 franchi tiratori che avevano affossato la corsa di Romano Prodi al Quirinale e non aveva esitato ad animare il movimento «Occupy Pd». Lei che, non contenta, al suo rientro nel partito, di essere stata subito nominata all’assemblea nazionale ed essere stata quindi portata all’Europarlamento, ne era di nuovo uscita in aperto dissenso con Matteo Renzi, reo di aver fatto approvare il Jobs Act. Il modo con cui ha scalato lo storico partito della sinistra è forse più eloquente delle parole che riserva al suo progetto politico. Evidenzia che con lei non si consuma un normale passaggio di testimone. Il suo è un assalto al vertice del partito in piena regola. È il compimento del progetto cui aveva dato vita nel 2013: «Occupy Pd». Obiettivo: ribaltarne la linea politica. La veemenza con cui espone le sue idee non è solo un dato caratteriale. Non è nemmeno solo frutto dell’irruenza propria della sua giovane età. È il tono giusto di chi chiama alle armi il popolo di sinistra per vincere la guerra dichiarata al vecchio Pd.

Il Partito democratico era nato con due caratteristiche. Voleva produrre la contaminazione delle culture politiche, la comunista e la cattolico-democratica tramite la fusione dei due partiti, la Margherita e il Pds. In aggiunta, si proponeva di nutrire la famosa «vocazione maggioritaria», l’ambizione cioè di creare l’alternativa alla destra per realizzare finalmente la democrazia dell’alternanza. Bene. La Schlein di colpo cancella entrambi questi obiettivi. Il cattolicesimo democratico propugnava una forma di economia sociale di mercato. Il Pds restava nel solco della tradizione comunista che aveva individuato nel proletariato il suo referente sociale. La nuova segretaria del Pd punta invece al passaggio dalla classe al genere. Cambia di conseguenza anche il referente sociale. Dà voce non più alle periferie popolari, ma alla borghesia del centro città. Non pone più l’accento sui diritti sociali, ma sui diritti civili. Diritti a tutto campo: salario minimo, lotta alla precarietà, accoglienza degli immigrati, difesa della sanità pubblica, centralità della scuola pubblica, sostenibilità ambientale.

Una forma di dirittismo, una raffica di diritti accompagnata da una spensierata indifferenza alla sostenibilità finanziaria del progetto. Parallelamente, sfuma l’ipotesi di costruire un campo largo comprensivo della sinistra e del centro a favore di una sinistra-sinistra. Il nuovo Pd potrà anche assorbire - come sta già avvenendo - le varie sigle del campo progressista, magari anche svuotare il M5S. Difficile che possa attrarre i moderati. L’esito del progetto dipenderà da molti fattori, innanzitutto dalla capacità leaderistica della Schlein. Per il momento il Pd può sentirsi rinfrancato dall’arrivo di una giovane donna che sta immettendo nuove energie a un corpo che mostrava evidenti segni di usura. Il tempo, è proprio qui il caso di dirlo, ci dirà se l’operazione è quella vincente.

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