Il Nord protesta
«Ora il lavoro»

Alle Officine grandi riparazioni di Torino lunedì era il Nord produttivo a protestare. Le 12 organizzazioni imprenditoriali hanno fatto sapere al governo che la connotazione di un Paese del G7 è una sola e che non vi sono scorciatoie: o si produce e si dà lavoro o si decade. Una terza via non è prevista. Assistiamo quindi alla fine di un’illusione. Una strana combinazione fra avvenirismo postmoderno e arretratezza pre-moderna. Ed è il dato caratteristico dell’Italia divisa appunto fra un Sud in eterno ritardo economico, sociale e civile ed il resto della penisola che vanta punte di eccellenza in una generale propensione alla intrapresa.

Si compie qui il legame organico all’Europa che ha sinora impedito al Paese un destino alla greca. Le aspirazioni ad un reddito di cittadinanza nascono da esigenze tipiche di un Paese industrializzato a connotazione tecnologica ma si materializzano nelle aspettative dell’assistenzialismo improduttivo. Una contraddizione della quale il Paese che lavora e produce sta prendendo coscienza. Non vi sono più margini per dare spazio all’equivoco che ha segnato la storia italiana recente. Quell’idea di economia sociale di mercato declinata in versione assistenzialismo. Il Nord che produce plusvalore e si fa carico degli sprechi, della corruzione, dell’inefficienza di una parte consistente della società.

La concorrenza internazionale non offre spazi. Troppo gravosi sono nel frattempo i carichi fiscali e i costi legati ai ritardi della pubblica amministrazione per godere di un plusvalore competitivo. Proprio quando l’assistenzialismo camuffato si allea all’ambizione della disintermediazione, del rifiuto del lavoro di raccordo delle istituzioni, delle organizzazioni come la Confindustria, i sindacati, le classi dirigenti, l’amministrazione pubblica nella sua parte sana diventa chiara la verità di questi giorni: l’equilibrio è saltato. Da tempo nel mondo occidentale le imprese assolvono ad una funzione sociale e quindi devono farsi carico della responsabilità non solo verso il profitto ma anche verso la comunità e i territori. Si chiama egemonia culturale e designa gli orizzonti strategici del Paese. Troppe volte nel passato l’industria ha utilizzato il potere per interessi di categoria senza alzare lo sguardo oltre il proprio vantaggio immediato.

Le famose svalutazioni competitive, cos’erano se non un vantaggio immediato per industrie che non riuscivano a tenere il passo con la concorrenza. La lira era debole e svalutata perché appunto non sufficientemente forte era la competitività delle imprese. E cosa sono i vari sussidi e esenzioni fiscali mirati se non agevolazioni governative per dare ossigeno ad aziende non in grado di competere con il mercato. Di questo si è accontentato il capitalismo italiano in tutti questi anni.

È quindi una svolta ciò che il presidente di Confindustria chiede: trovate i miliardi necessari per poter stare in Europa. Un’Europa fortemente competitiva dove le aziende italiane non vengono agevolate ma stimolate per essere all’altezza del loro compito. L’Italia produttiva e pragmatica capisce l’importanza del vincolo europeo. L’ideologia che unisce la Lega di Salvini con i 5 Stelle è l’ambizione di avere un’interlocuzione diretta con gli elettori. Ed è questa l’essenza del populismo. Totale delusione e disaffezione verso le vecchie classi dirigenti. Sentimento comprensibile e tuttavia bisogna trovare un’alternativa, con i no non si governa. Una lezione che il populismo nostrano sta imparando. Per gli apprendisti stregoni l’Italia sarà pure un laboratorio politico interessante, ma i miliardi di interessi aggiuntivi causati dall’innalzamento dello spread e dall’instabilità, quelli li paghiamo tutti.

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