Il lavoro invisibile, una piaga vergognosa

IL COMMENTO. Se Satnam Singh, il trentunenne di origine indiana rimasto coinvolto in un terribile incidente sul lavoro nelle campagne di Latina fosse stato in regola e non un lavoratore invisibile, come i tanti «zombie» che popolano le nostre campagne raccogliendo pomodori, zucchine o frutta per 4 euro all’ora pagati in nero, si sarebbe probabilmente salvato.

Ma i suoi compagni invece di portarlo in salvo lo hanno abbandonato come un cane davanti a casa con il braccio mutilato da un macchinario avvolgi nylon accanto al corpo. Come dire: «Non è affar nostro, vedetevela voi». È morto dopo due giorni di agonia. Una fine vergognosa, atroce, orrenda. «Qui non siamo solo di fronte a un grave incidente sul lavoro, cosa già di per sé allarmante ed evitabile, qui siamo davanti alla barbarie dello sfruttamento, che calpesta le vite delle persone, la dignità, la salute e ogni regola di civiltà», ha giustamente affermato Hardeep Kaur, segretaria generale Flai Cgil di Frosinone e Latina, che aveva reso noto l’episodio per primo.

Su questa tragedia c’è un silenzio assordante della politica, perché i migranti sono un tema divisivo ed è meglio non affrontare il problema. E dunque nemmeno denunciarlo, figuriamoci se tentare di risolverlo. Meglio voltarsi dall’altra parte e classificarlo come un incidente sul lavoro, uno dei tanti che si verificano in Italia. Invece la storia di Satnam è un esempio di come lavoro, sicurezza, legalità e dignità si leghino indissolubilmente. Quanti sono i Singh d’Italia? Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto sono ben 834 le vicende di sfruttamento complessivamente individuate nel nostro Paese. Una situazione di illegalità diffusa che va da Nord a Sud, che riguarda tutte le regioni italiane, ma soprattutto nel Mezzogiorno. Il lavoro invisibile continua a essere una piaga, soprattutto al Sud. Le tante Rosarno, con le sue rivolte schiavili, i tanti incidenti, ancora una volta non ci hanno insegnato nulla. Ci vorrebbero maggiori ispezioni, maggiori controlli e certamente un salario minimo da far rispettare da cui partire per evitare paghe da fame. Le leggi sulla sicurezza e contro il lavoro in nero ci sono, anche quelle contro il caporalato, il problema è che non si riesce a farle rispettare. Troppi imprenditori - soprattutto nel campo agricolo - le aggirano con facilità. Una situazione inaccettabile che richiede maggiori risorse.

Non è difficile immaginare la vita di Singh e di tutti quelli come lui, proprio quando si celebra la Giornata del rifugiato. L’Italia come terra di approdo. Una vita umile in cerca di riscatto, accanto alla famiglia e soprattutto alla moglie, che lavorava con lui nei campi. Una retribuzione vergognosa con la speranza di trovare di meglio, insieme a una casa migliore dove crescere la famiglia. E probabilmente una vita di umiliazioni, di ingiustizie, per portare a casa un tozzo di pane e qualche ortaggio con cui sostentarsi. Quello che colpisce è il commento di un parente del datore di lavoro che definisce la tragedia del giovane bracciante «una leggerezza costata cara a tutti». Sarà la magistratura a chiarire i fatti. Ma sul lavoro non esistono leggerezze o negligenze se si è in condizioni di sicurezza: rovesciare le responsabilità alludendo al fatto che il lavoratore «se l’è cercata» è troppo comodo: è ingiusto, oltre che crudele. Una concezione del lavoratore dura a morire, che rimanda ai tempi della Rivoluzione industriale, dello sfruttamento dei latifondi dell’800, come se due secoli di conquiste sociali sul piano dei diritti umani non fossero mai esistite. Il lavoratore con la stessa dignità di una vanga o di un rastrello, da usare e basta, perché mi serve. Tutto in nero, altro che assicurazione sul lavoro: quando non ne ho bisogno lo abbandono al suo destino. Se si ferisce, o meglio se si rompe, non lo riparo perché non mi conviene, troppe grane. Invece di portarlo in ospedale lo si carica su un furgone e lo si deposita con accanto il braccio mutilato dentro una cassetta della frutta. E questo è tutto.

Ma forse è il riflesso del clima che si respira in tante campagne, in tanti frutteti dove l’unica legge che conta è quella del caporale, ovvero del profitto e dello sfruttamento. «L’Italia non è un Paese buono», ha commentato la moglie di Singh disperata. Una accusa terribile, nella sua semplicità.

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