Il lavoro giusto
priorità del paese

Una tabella proiettata alla recente assemblea degli industriali di Bergamo, a supporto della relazione del presidente Scaglia, dovrebbe essere ben presente ogni volta che si parla dell’economia italiana. Illustra una delle contraddizioni più dolorose del mercato del lavoro, e cioè il rapporto tra disoccupazione e posti vacanti, cioè disponibili ma non coperti. Nel Nord, che pure ha un buon indice di occupazione, si tratta di 80 posti liberi ogni 100 disoccupati. A Bergamo la quota è 82,8: poco più di Milano, Treviso, Bologna. A Vicenza ogni 100 disoccupati ci sono addirittura 110,7 posti per cui non si trovano i lavoratori necessari.

Questa dunque è la vera priorità del Paese: il lavoro in generale, il lavoro giusto in particolare. E dato che formazione e crescita sono leve dipendenti soprattutto da scelte pubbliche, su questo dovrebbe dilaniarsi il dibattito politico, in un Paese a crescita zero, sorpassato nello spread da Portogallo e Spagna e tra poco anche dalla Grecia.

In queste ore invece, sull’asse Venezia-Taranto, corre l’improvvisazione e l’emozione. Solo un mese fa la priorità erano le carte di credito. Nessuno parlava di un dato fisso dell’autunno italiano: la necessità di prevenire il dissesto idrogeologico, che c’è fin da quando Greta non era ancora nata. Quanto alla questione Ilva è stata molto a lungo nascosta sotto il tappeto, ma la politica non ha capito che era dinamite sociale, perché altrimenti avrebbe evitato mosse false dando all’inquilino la scusa buona per andarsene. Il premier faceva spallucce davanti alle dichiarazioni molto chiare di Mittal sulla mancanza dello scudo penale. Il ministro Patuanelli diceva che già le norme esistenti potevano scudare dirigenti e operai. Così si permetteva, nella distrazione generale (vuoi mettere l’effetto nei talk dello slogan «manette agli evasori»?), il ricatto di un gruppetto di parlamentari 5Stelle guidati da un rancoroso ex ministro, di imporre il quarto contrordine sull’argomento. Avrebbe fatto meno danni restando al governo che non favorendo questa catastrofe sociale e industriale. Se poi si pensa che la tragedia dell’Ilva possa essere risolta in Tribunale, trascinandovi (questo il verbo usato), Arcelor Mittal, come se il nostro non fosse uno stato di diritto e come se un Tribunale fosse già una galera, allora significa che la partita è già persa. Non è infatti in un interminabile contenzioso giuridico di esito incerto che la questione può essere risolta, e sventolare giustizialismo non serve ad alimentare un altoforno già destinato, speriamo di no vista la sospensione di ieri sera, allo spegnimento.

I tre principali partiti non sembrano avere la forza di rimettere le priorità in ordine. I 5Stelle sono ormai al contrappasso, soffrendo di tutti i mali che attribuivano agli altri, aggravati dall’impreparazione. La Lega è in perenne campagna elettorale, con una fibrillazione stressante trasmessa a tutto il sistema. Il Pd chiude un ciclo statutario fatto di belle speranze sulla vocazione maggioritaria, e ammette il rischio di essere «cariatide» di un governo già in crisi. E il lavoro? Di lavoro non si parla. A Taranto e in altre tre Regioni italiane sono a rischio 20 mila posti e non si capisce che per un Paese manifatturiero il danno si estende a macchia d’olio. Il nostro export più importante è basato su macchine geniali fatte in acciaio. Lavoreranno molto solo gli avvocati. Il prof. Conte è rimasto all’ultima dichiarazione, quella di non avere soluzioni, che piace per sincerità in un mondo di promesse illusorie, ma va bene il primo giorno, poi è resa o, peggio, premessa di nuovi salvataggi a carico di tutti.

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