L'Editoriale
Lunedì 10 Ottobre 2022
Il governo sarà stretto fra due estremi
Ora che sta per iniziare il percorso costituzionale che porterà al nuovo governo, il primo punto che pare acquisito è il passaggio delle consegne ordinato. Draghi ha accelerato sulle cose che ancora restavano da fare e lascia in eredità un Pnrr dal cronoprogramma rispettato, come è stato confermato anche dai vertici europei. Oltre ad un tocco di bon ton istituzionale verso Giorgia Meloni, quando ha precisato che i partner europei sono più incuriositi che preoccupati dalla premier in pectore.
In un momento decisamente sfavorevole fra economia e geopolitica, si inaugura un nuovo ciclo con il primo governo di destra-centro, il primo esecutivo scelto dagli elettori 14 anni dopo l’ultimo guidato da Berlusconi. Europa e America guardano a questo esperimento, a questa ennesima scossa del laboratorio italiano, con un giudizio sospeso e, nel caso della Francia, con una attenzione critica al limite dell’ingerenza. L’incidente, che va inserito nel contesto europeo dove ognuno ha in casa l’area sovranista, è durato lo spazio di un mattino grazie allo scudo di Mattarella. Una replica asciutta e perentoria: «Sappiamo badare a noi stessi nel rispetto della Costituzione e dei valori europei».
Il presidente «veglierà» da garante, come del resto ha sempre fatto in modo ineccepibile. I nomi dei ministri, al termine delle consultazioni vere e proprie, daranno la fisionomia della compagine, diranno di che pasta è fatto il governo. Dai comportamenti e dalle parole, forse si capirà meglio qual è il vero volto della vincitrice delle elezioni. Draghi esce di scena, ma del suo metodo (il draghismo) qualcosa sembra rimasto. Il primo test è la legge di bilancio, la priorità ai problemi economici, un’agenda già definita nei temi obbligati: crisi energetica, inflazione, progressiva stretta monetaria della Bce. Le previsioni di crescita non sono incoraggianti, idem gli umori del Paese. Il futuro governo è stretto fra due estremi: da un lato un’opinione pubblica esigente e sofferente, che non fa sconti, dall’altro il principio di realtà. Fare meglio di Draghi sarà molto difficile, ma Giorgia Meloni non può permettersi di sbagliare. Fin qui ha inteso rassicurare e si capisce il senso di arruolare tecnici d’area: conosce alla perfezione il suo partito e la coalizione, compresi i limiti di entrambi, e puntare sui competenti significa accorciare la distanza fra ideologia e realtà, fra le vecchie parole d’ordine e la compatibilità dei conti economici e dei vincoli di varia natura.
E, insieme, sterilizzare qualche eccesso degli alleati. Vuol dire, alla guida dell’Economia, costruire un dialogo con l’Europa, il lato debole dei sovranisti: per incidere a Bruxelles servono conoscenza approfondita dei dossier e familiarità con le procedure decisionali. Lo stesso vale per gli altri ministeri sensibili (Interno, Esteri, Difesa) che richiedono la scelta di personalità inattaccabili. La distinzione fra tecnici e politici è un po’ arbitraria perché tutto è politico, ma nel nostro caso l’approccio di Meloni si distingue da quello di Salvini, che evoca un governo politico. I due si trovano in una posizione opposta rispetto al loro partito. Meloni deve traghettare la vecchia guardia post missina e post An dall’opposizione alla cultura di governo declinata in prima persona, dal recinto del 4% al campo esteso di primo partito: deve moderare Fdi, iniettandovi dosi di realismo pragmatico, sapendo tuttavia che non può ignorare completamente il richiamo della foresta, non può cioè avvicinarsi troppo a tutto ciò che ha contrastato.
Salvini, viceversa, non ha bisogno di disciplinare in chiave moderata la Lega, peraltro sostanzialmente obbediente, ma è il partito che è costretto a moderare il proprio leader ridimensionato, il perdente fra vincenti, affinché non ripeta gli errori del passato. La gestione del caso Salvini, la sua emancipazione o meno dall’ortodossia populista corrono paralleli alla «prima volta» della destra, ingombrandone il percorso. Da subito: quali relazioni con l’Europa, correzione o no del Pnrr, flat tax (già bocciata pure da Confindustria). Sapendo che ci sono solo due modi per finanziare una riduzione delle tasse: meno spesa pubblica o più debito. La prima soluzione socialmente improponibile, la seconda impraticabile con il debito pubblico al 150% del Pil, quindi senza margini per indebitarsi ulteriormente. Meloni si ritrova con la responsabilità di condurre il conservatorismo dentro le istituzioni forgiate dalla Costituzione e renderlo ricettivo nei confronti dell’establishment e del partito del Pil: una comunità politica che esce rimodellata dal consenso e dalla distribuzione geografica, gonfiata dall’ingresso di un nuovo elettorato sostanzialmente non ideologico.
Quella che era una formazione statalista e che pescava da Roma in giù, ha sbancato al Nord, nell’insediamento dei produttori europei, nell’Italia che conta, quella del Forum di Cernobbio: un partito pigliatutto, dalla base sociale interclassista (operai, lavoratori autonomi, ceti dirigenti). Alla forza dei numeri e alla centralità politica non corrisponde però una consistente relazione con il tessuto del Paese, i territori e i corpi intermedi della società di mezzo. Questo pezzo del racconto ancora non c’è, o perlomeno non lo abbiamo visto: resta un punto interrogativo. Si apre una fase inedita, tra ferite sociali e speranze deluse: non sarebbe, comunque, la prima volta che il vincolo della realtà s’impone sulle asprezze ideologiche.
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