Il governo è nuovo
i litigi sono vecchi

Mario Draghi non ha ancora terminato di scrivere il discorso che leggerà mercoledì e giovedì in Parlamento ma i partiti hanno già cominciato a fare la rumba attorno al governo di cui essi stessi fanno parte. Alla faccia della «comunicazione sobria» raccomandata dal presidente del Consiglio, tutti parlano, dichiarano, accusano, criticano, naturalmente soprattutto gli «alleati» e i colleghi di governo. Il primo cerino acceso gettato sulla benzina è stato quello della improvvisa chiusura degli impianti sciistici decisa dal ministro della Salute Speranza sulla base delle raccomandazioni del Cts (Comitato tecnico-scientifico) per evitare assembramenti sulle piste e nei rifugi.

Ovviamente tutto il settore del turismo alpino, ormai in ginocchio, ha protestato e chiesto risarcimenti, e i partiti sono corsi a raccogliere la loro protesta contro… loro stessi, ovvero contro il governo di cui sono membri e sostenitori. La Lega è stata la prima a partire con i governatori del Nord poi con Matteo Salvini e con il neoministro del Turismo Garavaglia che, in conferenza stampa con il governatore leghista della Lombardia Fontana, ha attaccato alzo zero il suo collega Speranza, ha parlato apertamente di «errore del governo» e ha invocato immediati rimborsi dei danni. A seguire stessi toni da Forza Italia e Italia Viva; alla fine anche il Pd (capofila il governatore emiliano Bonaccini) ha finito per criticare il povero Speranza. Il ministro della Salute si è ritrovato solo, almeno sino a quando uno scarno comunicato di Palazzo Chigi ha fatto sapere che la sua decisione «è stata condivisa». Ma questo non è stato sufficiente per frenare i partiti, ansiosi di prendere le distanze e di non farsi scavalcare dalla Meloni, scesa in campo con tutte le sue armi. Insomma, partiti di maggioranza e di opposizione nello stesso tempo.

Altro caso, quello del professor Ricciardi, consigliere del ministro Speranza, il quale – ignorando anche lui l’invito a alla sobrietà nella comunicazione – ha rilasciato un fascio di interviste, una più allarmata dell’altra, per chiedere recisamente un lockdown totale. Tra gli scienziati alcuni concordano con lui (Crisanti, Pregliasco), altri invece sono meno drastici (Ciccozzi, Palù): i leghisti chiedono a gran voce la sua testa, consigliere troppo generoso nel concedersi ai riflettori.

Insomma, Mario Draghi sta già facendo l’esperienza di un governo che più eterogeneo non si può e che dovrebbe essere tenuto in piedi quasi esclusivamente dal suo carisma e dal timore del Quirinale. Chissà se gli è venuto alla memoria il ricordo di quel governo del suo amico Romano Prodi che, nel 2006, aveva metà ministri seduti in Consiglio e metà in piazza a protestare contro il governo. Senza contare che le grane in vista non mancano: l’Ilva, per esempio, che dopo il sequestro operato dalla magistratura leccese, per l’ennesima volta rischia di mettere sul lastrico migliaia e migliaia di operai: come i suoi predecessori Monti, Letta, Renzi, Conte, anche Draghi dovrà escogitare un decreto di emergenza che tenga aperta la grande acciaieria sempre più malata (e che lo Stato ha intenzione di salvare con i soldi della Cassa Depositi e Prestiti).

Come se non bastasse anche Renato Brunetta, appena tornato al ministero della Pubblica amministrazione che già fu suo tra mille polemiche (soleva chiamare «pelandroni» i dipendenti pubblici), ha cominciato subito ad alzare la voce: «Gli impiegati dello Stato tornino alla scrivania, altro che smart working!», ha urlato alle agenzie di stampa ben sapendo di provocare una tempesta di proteste.

E non abbiamo nemmeno cominciato.

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