Il governo dell’Europa via in salita per Meloni

MONDO. La giornata cruciale per decidere chi governerà l’Europa nei prossimi anni è cominciata per Giorgia Meloni con messaggi a lei indirizzati per nulla rassicuranti.

Il primo lo ha inviato, chiaro chiaro, il cancelliere tedesco Scholz: «Nessun accordo con i partiti di destra o populisti di destra». Il secondo è arrivato dal portavoce della Commissione che ha attaccato «la simbologia fascista» presente nell’ormai famoso documentario girato da «Fanpage» fra i giovani di Fratelli d’Italia.

Terzo messaggio, che è un po’ la conclusione dei primi due, recapitato dal polacco Tusk: «Non abbiamo bisogno dei voti di Giorgia Meloni, abbiamo una maggioranza sufficiente per eleggere tutte le cariche». Maggioranza che servirebbe a confermare sia Ursula von der Leyen che Roberta Metsola, entrambe del Ppe, il partito tuttora egemone nel Parlamento europeo. In questo schema i popolari rimarrebbero ancora alleati con i socialisti (che dovrebbero ricoprire la presidenza del Consiglio europeo con il portoghese Costa) mentre la carica di ministro degli Esteri della Ue andrebbe a una esponente liberale dell’Estonia. E questo sarebbe l’accordo trovato da Macron, Scholz, Sanchez già al vertice del G7 a Borgo Egnazia e siglato nell’incontro a tre da cui non a caso Giorgia Meloni, la padrona di casa, è stata esclusa. Anche se la nostra premier ha vinto le elezioni mentre Macron e Scholz le hanno perse, sta di fatto che a Bruxelles l’equilibrio politico ancora esclude dalla stanza del potere qualunque partito di destra, che sia Meloni o Orban o, domani, Marine Le Pen.

Il tentativo italiano di essere determinante rendendo possibile l’elezione di Ursula, non è riuscito nonostante l’esito del voto di giugno. Certo, c’è sempre la possibilità che nel segreto dell’urna proprio Ursula - che conta su un vantaggio di circa quaranta voti oltre la maggioranza richiesta di 361 sì - possa essere impallinata dai «franchi tiratori», e allora molti giochi si potrebbero riaprire. Non a caso Antonio Tajani, esponente del Ppe e leader di un partito che in casa se l’è cavata più che bene, avverte i suoi alleati che «escludere i Conservatori è un errore»: se mancassero i voti, proprio a loro bisognerebbe chiedere aiuto e allora il prezzo sarebbe molto alto.

In questo contesto, all’Italia non resta per ora che chiedere uno o due posti di peso nella futura commissione: una vice presidenza e un incarico economico come quello attualmente ricoperto da Paolo Gentiloni, o anche la delega sulla concorrenza. Per quelle poltronissime si potrebbero proporre dei nomi politici (il ministro Fitto, primo fra tutti) che però porrebbero problemi di rimpasto di governo; o di tecnici stimati in Europa (Daniele Franco, ex ministro dell’Economia di Draghi). Ma è una partita che si giocherà dopo la cena di ieri sera e la lunga notte che ne è seguita per arrivare a chiudere il cerchio prima della riunione formale del Consiglio europeo che si apre oggi.

Ieri Meloni ha incontrato sostanzialmente i suoi alleati: l’ungherese Orban e i polacchi, oltre a Jean Michel, il presidente del Consiglio europeo ormai fuori dai giochi. Incontri separati con i capi delle grandi famiglie non ce ne sono stati, almeno non si è saputo. Forse anche questo è un motivo per riflettere su quanto diceva ieri uno che di Europa se ne intende, Romano Prodi: «Giorgia - avvertiva - deve decidere da che parte stare, finché rimarrà in mezzo al guado non conterà granché». Un’analisi contestata dalla maggioranza italiana che viceversa ha visto al vertice di Borgo Egnazia un’Italia più centrale negli equilibri continentali.

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