Il fattore immigrazione nel voto americano

MONDO. L’economia, o più precisamente: l’inflazione, potrebbe giocare un ruolo decisivo nelle prossime elezioni americane, una volta che si sarà posato il polverone sollevato finora dalla scelta dei candidati a presidenza e vice presidenza.

L’immigrazione è l’altro fattore da non sottovalutare in vista del 5 novembre. Non a caso le polemiche iniziali sulla candidatura di Kamala Harris alla guida dei Democratici ruotano attorno a questo tema, visto che «i primi anni alla Casa Bianca con Biden sono stati difficili, con una delega all’immigrazione che l’ha vista girare per molti Paesi dell’America Latina senza però riuscire a trovare soluzioni convincenti all’assalto continuo dei migranti al confine con il Messico», ha sintetizzato Marco Bardazzi sul «Foglio». In maniera speculare, alcuni osservatori si interrogano sulle «due facce» del candidato repubblicano Donald Trump, come ha scritto Marco Valsania su «il Sole 24 Ore», anche per la distanza tra l’obiettivo dichiarato dopo l’attentato di voler diventare «il presidente di tutta l’America, non della metà» e alcune sue dichiarazioni sui migranti paragonati al serial killer Hannibal Lecter o sulla promessa della «più grande deportazione di massa della storia americana».

Al di là delle polemiche contingenti, tuttavia, il fenomeno migratorio negli Stati Uniti è a un passaggio critico, come dimostrano diversi dati. Tra i numeri più dibattuti nell’agone politico c’è quello degli attraversamenti illegali al confine con il Messico, arrivati a 84mila nel mese di giugno. I Democratici sottolineano il progressivo e continuo calo dai 141mila attraversamenti intercettati a febbraio, grazie - sostengono - ad alcuni executive orders restrittivi della Casa Bianca. I critici, invece, puntano il dito sulle statistiche di medio-periodo: durante la prima Presidenza Trump (2017-2020), gli attraversamenti illegali hanno sfiorato il milione nel 2019, negli altri anni non hanno mai superato i 600mila; numeri molto più elevati invece sotto Biden, con il picco di 2,2 milioni di ingressi nel 2022, preceduti da 1,6 milioni nel 2021 e di nuovo oltre 2 milioni nel 2023 (fonte: U. S. Customs and Border Protection e Bbc). Secondo la televisione pubblica inglese, «oltre 6,3 milioni di migranti sono stati fermati mentre entravano illegalmente negli Stati Uniti da quando Biden è alla Casa Bianca, un numero più alto che durante le Amministrazioni Trump, Obama o George W. Bush».

Numeri tali da incidere su una delle variabili politicamente più sensibili per il dibattito americano, quello della «popolazione immigrata non autorizzata» (unauthorized immigrant population), arrivata nel 2022 a contare 11 milioni di individui secondo alcune stime, con un’inversione di tendenza verso l’alto dopo un prolungato calo tra 2007 e 2019. Non a caso, secondo l’istituto demoscopico Gallup, oggi per la prima volta dal 2005 una maggioranza degli Americani (il 55% degli adulti) vorrebbe che ci fosse «meno immigrazione».

I cambiamenti in corso sono profondi anche se l’attenzione si sposta oltre l’emergenza. Ancora una volta i numeri, più di tanta retorica, ci mostrano gli Stati Uniti come Paese d’immigrazione per eccellenza: da soli accolgono quasi un quinto di tutti gli immigrati del pianeta, oltre 50 milioni su 280 milioni (fonte: Onu). È nato all’estero il 13,8% della popolazione residente nel Paese, stima il Pew research center, in crescita dal 4,7% del 1970, cioè subito dopo l’approvazione di norme aperturiste come l’Immigration and nationality act. La democrazia più vibrante e ricca del mondo rimane dunque un polo di attrazione di persone senza pari tra le grandi potenze del pianeta, pur attraverso mutamenti senza sosta. Fino al 1890, Germania e Irlanda sono tra i principali Paesi di origine. Dal 1890 al 1919, il 60% degli arrivi proviene da Europa orientale e meridionale; primo Paese d’origine diventa l’Italia. Ancora nel 1960, il numero maggiore di immigrati arriva dalla Germania in ben 17 Stati della federazione e dall’Italia in 10 Stati. Dopo il 1965 cambia tutto, o quasi. Da allora America Centrale e Latina fanno la parte del leone tra le aree di provenienza: dei 72 milioni di immigrati registrati fino al 2024, il 25% è arrivato dal Messico, il 6% dalla Cina e un altro 6% dall’India (tutta l’Europa rappresenta il 12%).

Numeri record ed equilibri cangianti che danno appena l’idea di un esperimento di successo e senza precedenti nell’epoca contemporanea. Nel quale un’ampia maggioranza degli Americani continua a credere, visto che il 64% di loro ritiene l’immigrazione un fenomeno positivo per il Paese. A condizione che presto, una volta conclusa la battaglia politica nelle urne, entrino in azione politiche pubbliche efficaci e lungimiranti per correggere quello che oggi non va.

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