Il Dragone
si divora
il mercato
occidentale

Il Dragone si è pappato il pranzo dell’Occidente. Questo il pensiero espresso da alcuni specialisti su autorevoli quotidiani in occasione del 20° anniversario dell’entrata di Pechino nel Wto, l’Organizzazione per il commercio internazionale, avvenuta nel dicembre 2001. Un pensiero, è bene evidenziarlo, condiviso da non pochi politici e imprenditori. Ma è davvero così? Il bilancio dell’adesione cinese è innegabilmente a tinte chiaro-scure. Nel 2001 gli obiettivi erano di aiutare Pechino a crescere economicamente, di spingerla verso il libero mercato, di correggere pratiche poco ortodosse e arrivare ad aperture politiche.

Quanto si è realizzato è sotto gli occhi di tutti. Il Pil pro-capite cinese è passato da 1.033 dollari Usa l’anno (2001) a 10.500 (2020); la crescita annua del Pil da +4% a +17%; il mercato dell’Impero celeste è aperto ma con forti limitazioni per gli stranieri; le violazioni e i furti di proprietà intellettuale non sono mai cessati; vi è un leader a Pechino che nel 2022 avrà più poteri di quelli avuti, a suo tempo, dal Grande Timoniere, Mao Zedung.

Con tanti sacrifici, questo è indubbio, i cinesi sono usciti dalla povertà: nel 1990 era sotto la fatidica soglia il 67% della popolazione. La loro società, dominata dall’ingombrante relazione tra Partito unico e Stato, oggi sta cambiando. Ci si è accorti, ad esempio, che mettere al mondo dei figli costa e spesso le coppie non possono permetterselo. In precedenza erano braccia da lavoro per i campi.

Le élite, oramai arricchitesi e spesso affrancatasi, appaiono desiderose di un diverso rapporto con il potere. I regionalismi, uno dei talloni d’Achille del Paese, sono sotto controllo da parte del Centro grazie a valangate di yuan. Personalmente abbiamo compreso qualche anno fa la determinazione dei cinesi, guardando negli occhi di alcuni bambini radunatisi in un albergo di Nanchino per una competizione di matematica. Quella stessa determinazione l’avevamo vista in precedenza a Mosca tra i giovani russi negli anni Novanta.

La concorrenza spietata, la volontà di emergere e avere tenori di vita migliori, la fame, tutti elementi che abituano a lottare coloro che li vivono. Nell’aeroporto di Francoforte, 7-8 anni fa, fummo colpiti da una gioielleria piena di orologi costosissimi. Bastarono due voli per la Cina, con acquirenti che pagavano in contanti fino a 30mila euro, per lasciarla senza merce.

Quest’ultimo episodio è simbolico delle leggi dei grandi numeri, capaci di mettere a soqquadro le economie. I cinesi di Hong Kong dopo il 1997 si sono comprati mezzo centro di Sydney, innescando una spaventosa corsa dei prezzi degli immobili. Il problema, semmai, è stata la cattiva gestione dell’adesione al Wto di Pechino, che, a sentire gli americani – a partire da Trump –, fanno quello che vogliono o quasi, non rispettando le regole e oggi pretendendo di dettare l’agenda.

L’Occidente ha, però, avuto dei vantaggi dal 2001. Su tutto: vi è stato il boom del commercio; sono apparse merci più a buon mercato. Le conseguenze? La comparsa del polo Asia-Pacifico in alternativa a quello atlantico; il trasferimento in Cina dell’industria manufatturiera, ma al suo posto in Occidente sono comparsi posti di lavoro ad alta qualità e servizi. L’Italia con le sue tradizionali piccole e medie imprese ha purtroppo patito tanto questi mutamenti.

Riequilibrare questo rapporto sbilanciato sarà la sfida dei prossimi anni. Come? Applicando le regole, cercando di essere meno avidi e corrompibili. La Cina può essere ancora un’opportunità, ma, se gestita male, sarà un pericolo. Un Dragone in un negozio di cristalli può far danni!

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