L'Editoriale
Martedì 05 Febbraio 2019
Il destino dell’Italia
nell’Europa dei popoli
«Siamo europei», l’iniziativa tenutasi venerdì scorso a Roma si segnala per un’importante novità di metodo: tre associazioni accomunate da identità di principi democratici e progressisti - L’Italia che verrà (promotrice dell’evento), Koiné, Riformismo e solidarietà - hanno chiesto a Carlo Calenda un incontro, per sottoporgli domande da parte della società civile. L’ex ministro dello Sviluppo economico non si è sottratto alla richiesta, cogliendo l’occasione per illustrare le linee di una possibile convergenza delle forze politiche democratiche su una piattaforma programmatica per le elezioni europee di maggio.
Con l’obiettivo di una lista unitaria (nella quale ciascuna forza politica inserirà il suo logo) in grado di fronteggiare i rischi dello smantellamento dell’Unione europea che potrebbe derivare dal successo delle forze politiche «sovraniste» di natura populista. Tanto il «manifesto» di Calenda, quanto le domande delle associazioni si sono focalizzate su due punti nodali (che sono anche aspetti critici dello scenario politico e dell’orizzonte che si aprirà dopo le elezioni di maggio): dove vuole stare l’Italia?; cosa vogliono essere gli italiani?
La prima questione, nella sua essenzialità, si riduce a domandarsi se il nostro Paese voglia accomunarsi alla «fiera dell’Est» (per parafrasare una celebre canzone), accodandosi all’alleanza di Visegrad o decida piuttosto di rafforzare la sua permanenza in Europa, adoperandosi affinché essa diventi realmente un’Unione di popoli e cittadini e non soltanto di mercati e mercanti. Nel caso la contesa elettorale di maggio vedesse il prevalere i sovranisti, l’ideale europeista, delineato proprio in Italia nelle carceri di Ventotene durante la dittatura fascista, verrebbe inesorabilmente sconfitto a vantaggio del ritorno a tante «piccole patrie». Quelle a causa delle quali nel XX secolo si sono combattuti due tragici conflitti mondiali. Se, al contrario, questo crescente vento nazionalista trovasse argine nel voto popolare, si potrebbe ricominciare a ragionare sulle scelte politiche e sulle soluzioni istituzionali necessarie a superare l’impasse di quella che viene definita in maniera semplificatoria – ma, sovente, con qualche ragione – l’Europa dei «burocrati». Con un orizzonte chiaro: l’ampliamento della democrazia. Che - ammoniva Churchill – è la peggior forma di governo, tranne tutte le altre fino ad oggi sperimentate.
Per quanto riguarda cosa vogliono essere gli italiani, le risposte sono, ad un tempo, semplice e complesse. Semplici perché – se si guarda alla larghissima parte delle nuove generazioni – il sentirsi europei è un concetto assodato. E non riguarda soltanto coloro che hanno «fatto l’Erasmus» (altra becera affermazione che si sente fare, per tentare di contrapporre le «élite» al «popolo»), ma l’insieme dei giovani per i quali girare l’Europa e le altre nazioni non è un’avventura da privilegiati ma un modo di sentirsi cittadini del mondo. Complesse perché ai giovani occorre offrire un quadro di certezze per quanto riguarda il lavoro, la possibilità di un futuro decoroso, la tutela dei diritti fondamentali. Tutte questioni sulle quali soltanto in uno scenario di collaborazione l’Europa potrà avere voce in capitolo nell’economia «globalizzata» (con le sue incognite) e nei processi di trasformazione della produzione che implicheranno drastici riposizionamenti delle competenze.
Proprio la competenza è stata al centro del ragionamento di Calenda, che ha giustamente sottolineato come a guidare e sostenere i destini del Paese non devono essere presunte (o autoproclamate) élite, bensì coloro che hanno le competenze giuste. Diverse in ciascun ramo e per livelli di responsabilità. La scelta si pone, in definitiva, su alcuni elementi di distinzione. Nazionalista è colui che odia coloro che appartengono ad altri Paesi; tutt’altra cosa dal «patriota» che sente e mantiene la sua identità, anche mescolandosi con altri popoli e altre culture. «Prima gli italiani», in fondo, oltre che una tremenda banalità, è un controsenso storico.
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