L'Editoriale
Mercoledì 07 Luglio 2021
Il Covid non cancella
il diritto ad avere
tempi certi
nella giustizia
A pochi giorni dalla presentazione del progetto di riforma sulla giustizia e dagli emendamenti del ministro della Giustizia Cartabia al processo penale (attesi a fine luglio), arriva una sentenza molto attesa della Corte Costituzionale proprio su uno dei temi centrali del dibattito: la prescrizione. Come è noto questo istituto giuridico – finito tante volte nell’occhio del ciclone - regola gli effetti del tempo sul processo, sia civile che penale, dall’inchiesta alla sentenza, consentendo tra le altre cose all’imputato di conoscerne la durata: senza questa disposizione di legge il processo potrebbe teoricamente trasformarsi in un racconto di Kafka e durare all’infinito. Se invece i giudici sanno che oltre un certo periodo il processo per l’imputato si estingue, allora faranno di tutto per emettere una sentenza in tempo utile. È la cosiddetta durata «ragionevole» del processo, poiché una giustizia lenta, come recita il vecchio adagio, è una giustizia negata.
Per la seconda volta in pochi mesi la Corte si pronuncia sulla sospensione della prescrizione «causa Covid». Spieghiamo subito di cosa si tratta. In base a un recente decreto legge, se un’udienza viene rinviata perché – ad esempio - le misure di sicurezza in aula sono ritenute insufficienti o inadeguate e c’è il pericolo di infettarsi, allora il tempo della prescrizione è sospeso, la clessidra della giustizia si ferma fino a riprendere a far scorrere i granelli di sabbia con la nuova udienza, quando il capo dell’ufficio ritiene che non vi siano più pericoli di contagio.
Nel dicembre scorso i Tribunali di Siena, Spoleto e Roma fecero ricorso alla Consulta su questa norma, perché ritenevano che la sospensione della prescrizione prevista dal decreto dell’allora ministro della Giustizia Bonafede violasse la Costituzione. Perché? Perché secondo i ricorrenti la nuova legge stabiliva criteri retroattivi sfavorevoli danneggiando gli imputati. Ma la Corte rigettò il ricorso. In quel caso il decreto prevedeva uno stop ben definito, coincidente con la sospensione dei termini processuali per un periodo certo, dal 9 marzo all’11 maggio del 2020, per tutti. L’imputato aveva contezza di quanto sarebbe durata la sua prescrizione. Ieri, per la seconda volta, la Consulta si è invece pronunciata sulla prescrizione in maniera apparentemente opposta, e a firmare la sentenza è sempre lo stesso giudice Giovanni Amoroso, bocciando la norma che prevede che in caso di Covid, se un ufficio sposta un’udienza a data da destinarsi a sua discrezione, in base alle circostanze, di conseguenza i termini della prescrizione sono congelati fino alla ripresa del processo. Che differenza c’è tra la prima sentenza e la seconda? La determinatezza.
Nel primo caso i tempi sono certi, dal 9 marzo all’11 maggio. Nel secondo il periodo è a discrezione del capo dell’ufficio, e quindi non della legge, che come è noto è uguale per tutti, come sta scritto nelle aule dei tribunali. Quest’indeterminatezza è la stessa che coinvolge l’imputato, che ha diritto a sapere della durata della sua prescrizione.
La norma insomma risulta in contrasto con il principio di legalità sancito dalla Costituzione, è una decisione che non «assicura un sufficiente grado di conoscenza o di conoscibilità» della durata della prescrizione stessa per chi è coinvolto nel processo. Come scrive il giudice Giovanni Amoroso nella sentenza «con una conseguente lesione del principio di legalità limitatamente alla ricaduta di tale regola sul decorso della prescrizione». Niente può giustificare l’indeterminatezza della prescrizione. Nemmeno il Covid.
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