L'Editoriale
Venerdì 04 Novembre 2022
Il comizio è un conto: l’Europa è un altro
Si è lasciata alle spalle le polemiche sulla norma anti-rave party e sulla riammissione in corsia dei sanitari no-vax, ed è volata a Bruxelles per tastare il terreno più insidioso, quello europeo: Giorgia Meloni si è così sottoposta al primo esame vero della sua verde carriera di presidente del Consiglio. Dopo i colloqui con Roberta Metsola, Paolo Gentiloni, Jean Michel e soprattutto Ursula von der Leyen, la presidente del Consiglio ha affermato di essere contenta di questi incontri ravvicinati che servono, ha detto, «a smontare una certa narrazione» su di lei e la sua parte politica, e a dimostrare «che non sono marziani» quelli che hanno conquistato il governo di Roma dopo la autorevolissima stagione di Mario Draghi (che potrebbe essere proprio il successore della von der Leyen a fine ’24).
Il primo viaggio fuori confine aveva dunque una finalità di immagine: l’Italia di destra è sì quella che vuole avere «una voce più forte» che in passato, ma nello stesso tempo «vuole partecipare, collaborare a soluzioni comuni». Certo Meloni non può sperare che a Bruxelles, Berlino, Parigi, Francoforte, si siano dimenticati i suoi incitamenti ad uscire dall’euro, i suoi abbracci con l’unico leader europeo filo-putiniano, Orban, le proposte di blocco navale per fermare i migranti in mare, le polemiche anche di questi giorni contro la Germania e nemmeno le sue recenti dichiarazioni (in campagna elettorale) per una modifica del Pnrr che a Palais Berlaymont non hanno alcuna intenzione di concedere se non per l’aspetto dell’aumento dei prezzi energetici e delle materie prime. Per combattere tutte queste «narrazioni» ben scolpite nel cervello dei suoi interlocutori, nel suo viaggio Giorgia Meloni ha voluto dimostrare che quella frase che ha fatto il giro delle cancellerie («Con noi in Europa sappiano che è finita la pacchia») era una frase da comizio, da campagna elettorale, di quelle che si dicono per acchiappare un po’ di voti di arrabbiati. Ma che la sostanza è diversa e, appunto, collaborativa.
Questo approccio di realpolitik non vuol dire che Giorgia Meloni si sia presentata col cappello in mano alla ricerca di una legittimazione dall’alto, anzi. Non potrebbe farlo senza perdere il consenso appena conquistato, e non potrebbe farlo se non altro per rispetto del suo carattere, tutt’altro che remissivo. Tant’è che è rimasta la richiesta di una politica più decisa sul contenimento del prezzo del gas indispensabile per combattere gli effetti delle sanzioni alla Russia sulle nostre stesse economie, insieme ad una insistenza sulle modifiche al Pnrr. E poi, a proposito dei flussi migratori e della richiesta italiana di un maggior coinvolgimento degli altri Paesi nell’accoglienza dei profughi, Meloni ha voluto ripetere una frase che le sta molto a cuore: difesa dei confini esterni. Come poi questo si concretizzi, dopo il sistematico fallimento di tutti gli accordi tra partner, non si sa. «Seguiranno dossier particolareggiati», è stata la promessa della leader italiana.
Racconta chi era lì che l’accoglienza di von der Leyen sarebbe stata freddina, e che addirittura la presidente della Commissione abbia inflitto a Giorgia Meloni una imbarazzante mezz’ora di ritardo, fortunatamente riempita dal colloquio, sicuramente più cordiale, con Roberta Metsola presidente del Parlamento europeo. Non bisogna dimenticare che proprio l’ex delfina di Angela Merkel in piena campagna elettorale italiana si fece sfuggire una gaffe proprio sul vincente centrodestra, quando anche lei si sentiva come i francesi in dovere di «vigilare» su quanto accadeva nella Penisola avvertendo oltretutto che «ci sono strumenti» per governare certe cose. Un mezzo incidente diplomatico rapidamente rientrato, ma che dice oggi quali difficoltà debba affrontare Giorgia Meloni per conquistarsi un posto al pallido sole di Bruxelles. Tutto dipende da quali alleati riuscirà a conquistare.
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