Il clamore del Bayesian e l’anestesia del dolore

IL COMMENTO. Il mare è sempre stato il grande giudice delle fortune umane, l’arena dove i destini si incrociano senza riguardo per le classi sociali. Ma oggi, in questo nostro tempo strano, il mare stesso sembra aver preso parte al grande gioco delle disuguaglianze.

È difficile non notare la differenza tra la reazione suscitata dal naufragio di uno yacht di lusso, il Bayesian, e quella quasi assente di fronte alla tragedia quotidiana dei migranti, che muoiono a centinaia nelle stesse acque, su barconi fragili come gusci di noce.

Il Bayesian era un gioiello del mare, 56 metri di eleganza, con un albero che svettava per 75, il più alto del mondo, a quanto dicono. Eppure, in pochi minuti, quella che doveva essere una crociera di piacere si è trasformata in un incubo, portando via sette vite. Le immagini dei sorrisi spensierati di quegli uomini e donne che popolano le pagine dei social ci colpiscono, ci scuotono. Erano persone di successo, abituate a stare sotto i riflettori. Erano vite che ci piaceva osservare, anche solo di sfuggita, da lontano.

Ma questa tragedia porta con sé una domanda scomoda, quasi offensiva nella sua semplicità: perché il mondo si ferma per loro, e non per le migliaia di disperati che affrontano il mare nella speranza di una vita migliore? Il Mediterraneo è diventato una fossa comune, un cimitero liquido dove i corpi senza nome si accumulano. Stavolta i nomi ci sono, ha detto Erri De Luca, e il dolore sembra più palpabile. Ma cos’è cambiato, davvero?

Il mare unisce e separa, e oggi è il teatro di due realtà parallele. Da un lato, i lussuosi yacht che solcano le onde per diletto, dall’altro, i pescherecci malandati, carichi di speranza e disperazione. La tragedia del Bayesian ci ricorda la fragilità della vita, ma rivela anche un’amara verità: ci siamo anestetizzati al dolore altrui, soprattutto quando questo dolore appartiene a chi consideriamo diverso, lontano, inferiore. Da una parte, la morte dei ricchi che ci ricorda che nessuno è invulnerabile; dall’altra, il dramma dei migranti, che non ci tocca più perché è diventato una routine.

Negli ultimi trent’anni, migliaia di persone sono morte sfidando le onde e le tempeste, con il solo desiderio di vivere. Eppure, queste vite spezzate non ci scuotono più. Un altro barcone affondato, un altro migliaio di morti, e noi continuiamo a scrollarci di dosso la notizia con un’alzata di spalle, un sospiro, forse una preghiera distratta.

Eppure, a Palermo, i soccorsi per lo yacht sono stati tempestivi, come dovevano essere. Ma cosa dire delle leggi che scoraggiano i soccorsi dei disperati del mare, con l’illusione di fermare i viaggi dei trafficanti di uomini? Questi naufragi, noti e ignoti, hanno forse scoraggiato le partenze? E noi, chi siamo per decidere chi deve vivere e chi deve morire, per abbandonare delle anime nel mare nella speranza di salvarne altre?

Cosa è successo alla nostra umanità? Perché ci commuoviamo per chi muore nel lusso, ma restiamo impassibili di fronte a chi muore nella miseria? Forse la risposta è semplice, eppure difficile da accettare: ci rivediamo in quei volti, riconosciamo un pezzo di noi stessi, dei nostri sogni, delle nostre ambizioni. Nei migranti, invece, vediamo solo l’altro, lo straniero, qualcuno che temiamo. Ma è proprio questa distinzione che dobbiamo combattere, questa linea immaginaria che separa la sofferenza degna di essere raccontata da quella che può essere ignorata.

Non ci sono naufragi di serie A e di serie B. Ogni vita spezzata in mare, che sia quella di un magnate o di un rifugiato senza nome, merita il nostro dolore e la nostra attenzione. È tempo di riscoprire la nostra umanità, di piangere per ogni vittima del mare, senza distinzioni, perché ogni vita è un mondo che si spegne, e ogni morte merita il nostro commosso ricordo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA