Il cimitero nel mare. Salvare vite la priorità

MONDO. È il più grande naufragio nel Mediterraneo orientale. Per la dinamica ricorda quello avvenuto a Cutro, in Calabria, il 26 febbraio scorso. Ma di dimensioni e con modalità più gravi.

Un peschereccio partito cinque giorni fa da Tobruk, in Libia, e diretto in Italia con 750 migranti a bordo, tra i quali donne e bambini, avvistato da un aereo dell’agenzia europea Frontex, più volte segnalato anche da attivisti e ong, non ha ricevuto aiuto: si è ribaltato al largo di Pylos, in Grecia, a Sud del Peloponneso. Solo dopo sono state portate in salvo un centinaio di persone e recuperati dal mare 79 corpi. Le vittime potrebbero essere oltre 500. Negli ultimi 10 anni nel Mediterraneo hanno perso la vita almeno 26mila persone in fuga da guerre, violenze e povertà. Di fronte a un numero così agghiacciante, la politica dovrebbe ribaltare la priorità: salvare la vita, obiettivo di ogni civiltà che si dichiari tale. Solo rispondendo a questa urgenza, andando alla radice del fenomeno migratorio, sarà possibile gestirlo con giustizia e razionalità. Oggi invece la priorità illusoria è fermare gli sbarchi sulle coste europee, anche con accordi con Stati come Libia e Tunisia attraversati da grande instabilità politica ed economica e quindi destinati a non reggere. Intese per le quali l’Italia e l’Unione europea hanno sborsato centinaia di milioni di euro.

Non è negando la precarietà di questi accordi che si verrà a capo delle stragi di migranti. Nei giorni scorsi il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha detto che «la Tunisia è già considerata un Paese terzo sicuro da provvedimenti e atti ufficiali italiani». Due anni fa invece il governo danese dichiarò chiusa per decreto la guerra in Siria, Stato tuttora attraversato da violenze e da una gravissima crisi economica e umanitaria, per rispedirvi i rifugiati che Copenaghen aveva accolto, anche quelli con un lavoro e un’abitazione. Può funzionare dal punto di vista mediatico negare la realtà tragica dei luoghi di partenza dei migranti per rendere accettabili le riammissioni. Ma la realtà poi presenta il conto: le partenze infatti non si fermano. Servirebbe invece fissare alcuni punti fermi. L’omissione di soccorso è un reato in base al diritto internazionale, quel diritto che ha sempre meno consensi anche a proposito del contrasto alle guerre. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a proposito della tragedia nell’Egeo, ricorda poi l’urgenza «di un’azione concreta e globale da parte degli Stati per salvare vite in mare e ridurre i viaggi pericolosi, ampliando i percorsi sicuri e regolari». La promessa di canali umanitari per chi fugge da guerre e violenze anche in Italia è stata disattesa nei fatti. L’ultimo decreto flussi per chi cerca manodopera immigrata nel nostro Paese prevedeva poi 80mila posti ma sono arrivate oltre 240mila richieste da parte di aziende e di privati: la domanda è più alta dell’offerta dimostrando ancora una volta che le politiche migratorie non fanno i conti con la realtà, nemmeno con le esigenze economiche dello Stato di approdo.

I nostri governi hanno speso fra i 9 e i 10 milioni di euro per rimpatriare una media di poco più di 5mila migranti irregolari all’anno, appena il 20% di coloro che hanno ricevuto un decreto di espulsione. Nel 2022 per la prima volta la Corte dei Conti ha quantificato la cifra sborsata dall’Italia per i rimpatri: 27,4 milioni nel triennio 2018-2020, quest’ultimo l’anno più dispendioso con 8,3 milioni serviti per riportare in patria appena 3.351 persone. Rimpatri miraggio, respingimenti in mare con profili d’illegalità e promesse non mantenute di istituire canali d’ingresso legali: va preso atto del fallimento. Le sfide che l’Europa e l’Italia hanno davanti sono invece immense: la crescita demografica dell’Africa e l’invecchiamento progressivo delle nostre società. Secondo un dossier dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, nel 2022 inoltre gli sfollati in seguito ai cambiamenti climatici sono aumentati di oltre 19 milioni nel mondo, un balzo record. L’Italia ne accoglie più di 354mila. A pagare il prezzo più alto in termini di emigrazioni sono i Paesi che influiscono meno al riscaldamento climatico globale. A fronte di queste prospettive, la politica deve ritrovare la capacità di leggere i fenomeni in profondità per dare risposte adeguate. Intanto non si vìoli il dovere al soccorso di chi rischia la vita in mare.

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